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                                  Narrativa
                                  Questa rubrica è aperta a 
                                chiunque voglia inviare testi in prosa inediti, 
                                purché rispettino i più elementari principi 
                                morali e di decenza... Frontiere di Massimo Acciai, 
                                  Noia di 
                                  Giuseppe Costantino Budetta, 
                                  Professione Euro 
                                  di Elisabetta Giancontieri, 
                                  Diario di 
                                  Vagabonda di Tiziana Iaccarino, 
                                  La Fata dai 
                                  capelli biondi di Cesare Lorefice e Luana 
                                  Milan, Follia di Alessandro Pellino, 
                                  I 
                                  viaggiatori d'Europa di Paolo Ragni, 
                                  Viaggio 
                                  in Inferno di Peter Robertson, 
                                  Starnazzatori 
                                  di Stefano Carlo Vecoli, 
                                  Trenta ottobre di 
                                  Anna Maria Volpini
 
Poesia italianaPoesia in lingua
                                Questa rubrica è aperta a chiunque voglia 
                                inviare testi poetici inediti, in lingua diversa 
                                dall'italiano, purché rispettino i più 
                                elementari principi morali e di decenza... poesie di Rossana D'Angelo, 
                                Lucia Dragotescu, 
                                Manuela Leahu, 
                                Anna Maria Volpini
Recensioni
                                  
                                  In questo numero:- "Vita di Ungaretti" di Walter Mauro, nota di 
                                  Enrico Pietrangeli
 - "Di chi è la luna?" di Massimo Acciai
 - "Un barlume di speranza" di Tiziana 
                                  Iaccarino, nota di Massimo Acciai
 - "Gli spettri del Quarto Riech" di Marco 
                                  Dolcetta, nota di Enrico Pietrangeli
 - "Image this. Io e mio fratello John Lennon" 
                                  di Julia Baird
 - "L'Occhio del Potere" di Stefano Peverati
 - "Tra inferno e paradiso" di Cristina 
                                  Soranzio
 - "Phönix" di Stefano Lanciotti
 - "Ho gettato dio nella pattumiera" di Bruno 
                                  Previstali
 - "La mummiona e altre storie" di Nicoletta 
                                  Santini, nota di Massimo Acciai
 - "Animali & animali" di Cristina Buzzi
 - "Chiedo i cerchi" di Valeria Serofilli
 - "Puttanate magistrali" di Marco Porta
 - "Triade" di Luca Vicari
 - "Europa" di Massimo Semerano e Menotti
 - "Malinconico Leprechaun" di Patrizio Pacioni 
                                  , recensione di Simonetta De Bartolo
 - "Le stanze del cielo" di Paolo Ruffilli, 
                                  recensione di Roberto Mosi
 - "Ritorno al mondo perduto" di Edward D. 
                                  Malone, nota di Enrico Pietrangeli
 - "Dizionario etimologico"
 - "Dizionario mitologia classica"
 - Gli almanacchi meneghini della libreria 
                                  Milanese
IntervisteIncontri nel giardino 
                                  autunnale |  | 
                                                    
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                              Intervista a Vincenzo Cocco
 
 Verrebbe da chiederle cos'è il 
                            viaggio ma credo che la domanda sia un tutto e 
                            niente. Lei cosa cerca nel viaggio suo o di altri, 
                            cosa deve avere il paesaggio per diventare oggetto 
                            di ricerca, per divenire metafora della propria 
                            vita?
 Rispondo innanzitutto alla sua domanda sul viaggio 
                            (una domanda non banale: non è affatto "un tutto e 
                            un niente"). E lo faccio ricordando che, sin 
                            dall'antichità, il viaggio appare come simbolo della 
                            costruzione del soggetto. L'esordio dell'Odissea (I, 
                            vv. 1-5), delinea e fonda una figura e un mito 
                            dell'Occidente: "Narrami o Musa dell'eroe 
                            multiforme, che tanto / vagò, dopo che distrusse la 
                            rocca sacra di Troia: / di molti uomini vide le 
                            città e conobbe pensieri, / molti dolori patì sul 
                            mare nell'animo suo, / per acquistare a sé la vita e 
                            il ritorno ai compagni".
 L'eroe che va vagando sul mare (che si allontana e 
                            de-via: apre e percorre vie nuove che portano alla 
                            conoscenza dell'altro e di sé) fa esperienza del 
                            nuovo che incontra e del mistero che ri-vela (svela 
                            e nasconde) il proprio animo. E questo esperire 
                            avviene nel dolore e con dolore. Perché, 
                            nell'affrontare l'insolito e l'indecifrabile, l'uomo 
                            conosce dolorosamente la propria insufficienza o 
                            difettività: i propri limiti. Ma, come ricorda 
                            Hölderlin in Patmos, proprio nell'estremo pericolo 
                            (quello della perdita di sé), l'uomo scopre anche le 
                            proprie possibilità: le risorse, le vie, 
                            dell'intelligenza e dell'animo, la propria capacità 
                            di esaminare, nell'agire, "ciò che è opportuno nella 
                            determinata circostanza" (Aristotele, Etica 
                            Nicomachea, II, 2, 1104a 9-10).
 Il viaggio di Ulisse è sia un cammino attraverso vie 
                            inesplorate (lungo le quali si erra per mancanza di 
                            orientamento: la via come ricerca) sia un cammino 
                            dell'esperire umano, che, nell'oscillazione del 
                            dis-orientamento e grazie all'ingegno della mente, 
                            scopre o inventa nuove vie, aperte al mutamento.
 L'apparire di Ulisse su una delle scene aurorali 
                            dell'Occidente (ricorda giustamente Piero Boitani ne 
                            L'ombra di Ulisse), "la presenza costante di questa 
                            figura, il fascino che essa non ha mai cessato di 
                            esercitare sull'immaginazione, sono segni del suo 
                            portare in sé il nostro destino di uomini".
 Ecco che cosa è per me il viaggio: movimento del 
                            soggetto. Attraverso il quale è possibile cogliere i 
                            percorsi dell'io, il suo "far getto di sé" per 
                            ritrovarsi. Dove il ritrovarsi non significa sempre 
                            o solo "giungere alla meta" (conciliazione), ma 
                            anche la coscienza dell'impossibilità della meta (la 
                            meta come sosta momentanea, aperta su nuovi e 
                            infiniti orizzonti).
 Ecco, ancora, che cosa cerco nel viaggio, sia quando 
                            lo studio sia quando ad esso mi abbandono: prestare 
                            attenzione alle linee della propria e altrui vita. 
                            Linee (ricorda Hölderlin in una delle Poesie della 
                            torre, Die Zufriedenheit-La contentezza) che sono 
                            varie come le vie, "come strade e crinali di monti".
 Dopo, solo dopo, la definizione della mia idea di 
                            viaggio posso passare alla sua domanda sul paesaggio 
                            come oggetto di ricerca. E dire che esso diventa 
                            metafora della propria vita quando (più che essere 
                            un semplice stato d'animo, come diceva Amiel, o come 
                            ripeterà Nietzsche in uno dei Frammenti Postumi 
                            della primavera-estate 1877) diventa spazio del 
                            mutamento dell'anima (acquisizione di uno sguardo 
                            più penetrante sulle cose e sugli uomini), luogo 
                            d'un pensiero che sa pensare a partire dalla 
                            meraviglia e dallo stupore.
 In un frammento de Il libro dell'inquietudine, 
                            criticando l'affermazione di Amiel sul paesaggio, 
                            Fernando Pessoa ha scritto che la verità del 
                            paesaggio, "la verità dell'esterno assoluto", si 
                            svela con la virtù nobile dell'intelletto. Che 
                            vedere, perciò, un paesaggio non significa 
                            soggettivarlo. Lo si rende un "brano dell'io" 
                            soltanto quando lo si vive e rivive attraverso il 
                            sogno. Per cui, conclude, sarebbe più giusto dire 
                            che "uno stato d'animo è un paesaggio", con le sue 
                            ombre e luci, con i suoi abissi e superficie, con le 
                            sue tempeste e bonacce, con i suoi autunni e 
                            primavere. Con il suo tempo circolare, che unisce 
                            fine e inizio, ritorno e futuro.
 Un tale modo di 'pensare e vivere il paesaggio' è 
                            quello di Diderot, che, ne La promenade du sceptique, 
                            parla della "philosophie locale" di Cleobulo, per il 
                            quale "tutta la sua campagna era animata e parlante; 
                            ogni oggetto gli forniva pensieri di un genere 
                            particolare, e le opere della natura erano ai suoi 
                            occhi un libro allegorico ove leggeva mille verità 
                            che sfuggivano agli altri uomini".
 Il paesaggio, che è capace di suscitare meraviglia, 
                            apre alla contemplazione: è sguardo sul bello e 
                            sull'ordine (all'ordine rimanda anche il disordine) 
                            degli esseri. Solo in questo caso il paesaggio è 
                            oggetto di ricerca e metafora della propria vita.
 
 Il giardino come desiderio di dominare la natura, 
                            come metaspazio, come residuo della memoria della 
                            vita dell'uomo. Lei si è molto occupato del giardino 
                            come concetto storico, filosofico. Nel tempo 
                            presente che senso dovrei dare al confronto tra 
                            natura e cemento.
 
 La natura lasciata a se stessa non è un giardino, 
                            perché solo l'arte ne fa un giardino.
 Il giardino è un artificio e la sua artificiosità 
                            (ha scritto Rudolf Borchardt nel Il giardiniere 
                            appassionato) rende tale spazio "l'eterno correttivo 
                            della natura", caratterizzandolo come "una 
                            elementare e costante istituzione umana".
 Una tale premessa avvicina e introduce all'essenza 
                            del luogo. Permette di dire che il giardino è una 
                            de-finizione (de-terminazione) dello spazio, 
                            attraverso la quale si gerarchizzano spazi e, 
                            quindi, si valorizzano. La linea artificialmente 
                            tracciata sul terreno a separare il giardino dal suo 
                            esterno (ogni giardino è un recinto) istituisce 
                            spazi e tempi diversi. Stabilisce differenze. Crea 
                            alterità.
 Proprio perché definito da una barriera artificiale, 
                            il giardino è sempre l'altro di qualcosa. Ad altro 
                            sempre si oppone. Luogo della differenza, il 
                            giardino sorge come alterità, il che lo ha reso 
                            luogo di proiezione dei bisogni, delle ansie e dei 
                            desideri umani.
 La passione dei giardini non nasce dalla 
                            "sovrabbondanza di sogni", ma da una "sovrabbondanza 
                            di sofferenze" patite dall'uomo. Il 
                            giardino-paradiso, ha scritto Alda Merini ne L'anima 
                            innamorata, è ciò che piace all'uomo, è quello che 
                            l'uomo vorrebbe che fosse la terra. Ma, aggiunge, il 
                            paradiso non esiste se non comincia da questa 
                            povertà naturale che sono i nostri occhi fissi 
                            all'ora fatale, dalle nostre mani tese e vuote.
 Il giardino come luogo altro e recinto protettivo 
                            affonda le proprie radici nella storia degli uomini. 
                            Dal giardino sumero di Inanna (la Signora della sera 
                            e del mattino, la Stella radiosa, la Grande Luce e 
                            Grande Madre che "irradia gli orizzonti" e "provvede 
                            alla vita di ogni terra") al giardino piantato da 
                            Dio "in Eden, a oriente"; dai giardini medievali (in 
                            cui si rappresentava l'idea archetipa della natura 
                            divina, la bellezza assoluta di una natura 
                            incorrotta) ai giardini rinascimentali e secenteschi 
                            (in cui è l'aspirazione a un'eterna primavera della 
                            vita, come ricorda il luogo raffigurato da Poussin 
                            ne Le printemps ou Le paradis terrestre); dal 
                            giardino edenico di Milton a quello descritto da 
                            Rousseau ne Le verger di Madame de Warens e poi nel 
                            romanzo Julie ou La Nouvelle Héloïse (asili di pace, 
                            dove il tempo "coule", trascorre lento e delizioso e 
                            la vita è un seguito di giorni vissuti senza 
                            inquietudine); sempre il giardino è stato alterità 
                            onirica, anelito a "una dolce evasione", fondato su 
                            idee di fertilità e di vitalità, di piacere e di 
                            riposo.
 Questo modello 'edenico' di giardino sembra trovare 
                            però una sua confutazione, un suo capovolgimento 
                            significativo, nell'Ottocento, nell'opera di poeti 
                            come Leopardi e Baudelaire. Nello Zibaldone (19 e 22 
                            aprile 1826), il poeta di Recanati descrive, sul 
                            ricordo nostalgico del giardino edenico, la figura 
                            del giardino moderno: un giardino della souffrance, 
                            all'interno del quale "qual individuo più, qual 
                            meno" è consapevole che "ogni giardino è quasi un 
                            vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un 
                            cemeterio)". In uno dei poemetti dello Spleen de 
                            Paris, Le veuves, Baudelaire mostrerà la 
                            trasformazione dei giardini moderni: giardini 
                            pubblici da cui è assente ogni idea di sacro e in 
                            cui vive una umanità sofferente e straniata, agitata 
                            dalla turbolenza della vita, trascinata verso tutto 
                            ciò che è debole, rovinato, orfano.
 Nella configurazione leopardiana e baudelairiana del 
                            giardino moderno è racchiusa la consapevolezza di 
                            un'insanabile frattura tra uomo e natura. Le nostre 
                            città, dice il personaggio di un recente film di 
                            Marco Martani (il personaggio è Franco Zorzi detto 
                            'il primario', che ha il volto fisso di Giorgio 
                            Faletti), sono "cemento armato": materiale duro che 
                            non ha respiro e non fa respirare, che è soffocante 
                            e disperato e perciò rende la vita dei cittadini 
                            angusta (priva d'aria) e senza gioia, che invade 
                            come una colata di cenere grigia e riduce, sino ad 
                            annullarli, quegli spazi dell'alterità che sono 
                            stati i giardini. Più che confronto tra natura e 
                            cemento, bisogna parlare, nelle metropoli moderne, 
                            di affronto del cemento nei confronti della natura, 
                            del paesaggio e dei giardini
 Consapevole di ciò è stato Rosario Assunto (uno dei 
                            più importanti filosofi del giardino e del 
                            paesaggio), il quale, alla fine de Il paesaggio e 
                            l'estetica (scritto più di trenta anni fa), con 
                            parole di fragile speranza o di lucida disperazione, 
                            scriveva: "E se tante volte del giardino come 
                            paesaggio e del paesaggio in quanto assimilabile al 
                            giardino abbiamo parlato come del paradiso perduto, 
                            dobbiamo pur ricordare che l'esserci sforzati di 
                            prendere coscienza di un bene che abbiamo perduto, o 
                            che stiamo per perdere, è già un primo passo sulla 
                            via della riconquista, Né altro può fare l'estetica, 
                            in quanto filosofia, se non aiutare a prendere 
                            coscienza".
 
 A Venezia c'è un giardino segreto. Gli isolani 
                            non dicono di chi è, e aleggia una leggenda che 
                            parla di feste di fine '800 (adoro la vecchia 
                            Europa) e di degrado novecentesco. Il senso di 
                            rovina tra natura e berceaux mi affascina molto. 
                            Sono mie inutili elucubrazioni?
 
 Nella sua domanda ci sono due termini che mi preme 
                            sottolineare: giardino e isola. Due figure diverse 
                            ma legate da una stessa idea: la circoscrizione 
                            dello spazio che separa. E che, separando, consente, 
                            a chi "aime à se circonscrire", di "chiudersi in un 
                            cerchio di solitudine". Il giardino insulare 
                            (un'isola nell'isola) è un luogo doppiamente 
                            protetto che forse si ama, che si sceglie, per 
                            essere più vicini all'evidenza del proprio animo e 
                            della propria coscienza, per provare il sentimento 
                            dell'esistenza, sentimento, ricorda J.-J. Rousseau 
                            nelle sue Rêveries, che non lascia l'animo vuoto, 
                            che non è assottigliamento dell'io, ma soddisfazione 
                            intima, apertura al mondo e pienezza del Sé.
 Su questo giardino insulare aleggiano, lei dice, 
                            leggende che parlano di feste di fine Ottocento e di 
                            degrado novecentesco. Aleggia anche (lo dico a 
                            partire dalla sua domanda) il tempo, che toglie 
                            consistenza alle cose e ai gesti, e che produce (là 
                            dove non è costante cura), rovina. La quale è segno 
                            della dissoluzione, ma anche di un nuovo rapporto 
                            tra natura e arte. La rovina di una costruzione, ha 
                            scritto Georg Simmel, mostra che nella scomparsa e 
                            nella distruzione dell'opera d'arte crescono altre 
                            forze e altre forme, quelle della natura, e così, 
                            "da ciò che in lei vive ancora dell'arte e da ciò 
                            che in lei vive già della natura, scaturisce un 
                            nuovo intero, una unità caratteristica". Questa 
                            unità caratteristica ci apre all'immagine di un 
                            tempo circolare, un tempo inclusivo, all'interno del 
                            quale principio e fine coincidono in un punto. Ciò 
                            trasforma la nostra percezione della vita e ci 
                            consente di capire che la fine non è solo 
                            dissoluzione ma anche origine. Perciò, forse, le 
                            rovine disegnate artisticamente dalla natura (che si 
                            rimpossessa dell'opera dell'uomo) ci trasmettono, 
                            insieme al pensiero dolente della caducità, anche 
                            quello della gioia che ci viene dal divenire, dal 
                            ritmo incessante della vita.
 
 Mi parla, per mio diletto, del viandante tragico 
                            e del pellegrino della notte?
 
 Ponendomi questa domanda lei fa riferimento a un mio 
                            breve saggio scritto per il catalogo della mostra 
                            "Romanticismo. Il Nuovo Sentimento della Natura", 
                            allestita a Trento, a Palazzo delle Albere, dal 15 
                            maggio al 29 agosto 1993, e che aveva come titolo Il 
                            viandante tragico e il pellegrino della notte. Due 
                            figure del Romantico. In questo scritto mettevo a 
                            confronto il viaggiatore di Novalis e quello di 
                            Hölderlin.
 Il primo (uno "strano nomade", si legge nell'Heinrich 
                            von Ofterdingen) è l'artista che, pur vagando in un 
                            mondo trasformato in pura negatività e in vuoto 
                            abisso, procede con "aureo piede", cercando la 
                            conciliazione "fantasticamente e idealmente" 
                            nell'unità oscillante della coscienza poetica. Il 
                            suo cammino è uno sprofondare dell'io in se stesso, 
                            una introflessione e armonizzazione notturna dei 
                            conflitti reali. Il pellegrino della notte di 
                            Novalis sa che ogni viaggio, anche quello verso 
                            l'interno, inizia con una Trennung (separazione, 
                            distacco), somigliante all'esperienza della morte. 
                            Ma egli sa anche che il distacco, "dopo aver a lungo 
                            angosciato l'uomo come una visione notturna", 
                            rappresenta un punto di svolta, a partire dal quale 
                            inizia la via d'una conoscenza consolatrice. Il suo 
                            cammino disegna, perciò, la traiettoria d'una 
                            Wallfahrt, d'un pellegrinaggio proprio dell'esule in 
                            terra, che, perduta una innocenza originaria, sogna 
                            e insegue, poeticamente, l'innocenza della patria 
                            celeste.
 La raffigurazione di questo viaggiatore novalisiano 
                            contiene in sé una critica ad un altro tipo di 
                            viaggiatore: il Wanderer, il viandante, colui che 
                            erra senza patria e senza meta. Novalis ritiene il 
                            viandante privo di cadenze filosofiche e artistiche, 
                            perché è incapace di elevarsi sulle "asperità della 
                            superficie terrestre", di conciliare le opposizioni 
                            del mondo, che gli si presentano sempre "dure e 
                            insormontabili".
 Ma proprio questa durezza oppositiva del reale 
                            rendeva, agli occhi del Wanderer, impossibile e 
                            falsa, illusoria e idealistica, ogni forma di 
                            conciliazione. Il viandante - quello di Goethe e di 
                            Caspar David Friedrich, di Adrian Ludwig Richter e 
                            di Hölderlin - ha coscienza della propria 
                            separatezza da ogni forma di ideale, e anche se 
                            possiede in sé la soluzione dell'enigma del destino, 
                            sa che essa non è applicabile al proprio tempo. 
                            Tragico allora diviene il viaggio del Wanderer (una 
                            Wanderung contro la Wallfahrt novalisiana) perché è 
                            il cammino di una scissione insanabile tra l'io e il 
                            mondo (una scissione, dirà Hölderlin, che è una 
                            ferita sempre aperta).
 Per il Nietzsche di Umano, troppo umano e delle 
                            opere successive, lo sradicamento del viandante, il 
                            suo essere senza casa, non rappresenterà, però, solo 
                            una condizione negativa, ma anche l'opportunità di 
                            nuove conquiste e di altri 'dolci mattini'. Egli 
                            cercherà di offrire all'uomo l'occasione di curare 
                            l'antica "malattia d'assoluto" con continui 
                            superamenti, in modo che si possa vivere per 
                            esperimento, con la nostalgia di un futuro che dà la 
                            regola al presente. Solo ciò, ricorda Nietzsche, 
                            rende possibile di vivere da veri viandanti. E non 
                            da esausti viandanti, i quali, dopo tanto errare, 
                            per stanchezza ed estenuazione, disimparano a 
                            diffidare degli ultimi incantesimi dell'ideale, e si 
                            rintanano, alla fine, nei più riposti cantucci della 
                            metafisica.
 Penso che la strada indicata da Nietzsche, faticosa 
                            e dolorosa, senza mete e con solo soste, sia quella 
                            che può consentire, nel nostro tempo (da lui 
                            annunciato), di imparare la saggezza del passare 
                            oltre, e quella salute dello spirito "che non 
                            soltanto si possiede, ma che di continuo si 
                            conquista, poiché di nuovo si sacrifica e si deve 
                            sacrificare".
 
 Se mi regalasse delle osservazioni da naufraghi 
                            mi farebbe un grande regalo…
 
 Nelle sue domande ritornano metafore fondamentali 
                            del moderno. Quella del naufragio è una di queste. 
                            Essa si ripresenta, con insistenza, nelle occasioni 
                            e nelle epoche di crisi, per raffigurare un pericolo 
                            o un destino. Oggi l'immagine del naufragio ricorre 
                            davanti al senso di smarrimento e di spaesamento che 
                            avvolge le nostre certezze e il nostro futuro. 
                            Naufragano idee e convinzioni, ideali e verità. Il 
                            problema è capire se un tale naufragio è definitivo, 
                            come quello rappresentato da Caspar David Friedrich 
                            nel suo dipinto Il mare di ghiaccio, che porta, come 
                            sottotilo, Il naufragio della speranza.
 Credo che un naufragio appaia irreparabile solo se 
                            viene posto in riferimento con un assoluto. Se si 
                            toglie invece l'assolutezza di un ideale, il 
                            naufragio ci appare come una possibilità della 
                            navigatio rationis e della navigatio vitae. Come un 
                            momento di un cammino del soggetto.
 L'immagine del viandante dionisiaco descritta da 
                            Nietzsche può essere una risposta a questo senso di 
                            inabissamento che avvolge le nostre esistenze. 
                            Contro le verità che naufragano il filosofo di 
                            Aurora ci invita a un compito, che è quello di 
                            "cambiare le valutazioni", perché, scrive 
                            nell'aforisma 289 de La gaia scienza, nel tempo del 
                            nichilismo, del naufragio di ogni ideale, "è 
                            necessaria una nuova giustizia. E una nuova parola 
                            d'ordine. E nuovi filosofi. Anche la terra della 
                            morale è rotonda. Anche la terra della morale ha i 
                            suoi antipodi. Anche gli antipodi hanno il loro 
                            diritto all'esistenza. C'è ancora un altro mondo da 
                            scoprire: e più d'uno! Via sulle navi, filosofi!". 
                            E, si può esplicitare, senza essere paralizzati dal 
                            pericolo d'un naufragio!
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