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Narrativa

Neve & nebbia di Massimo Acciai, Ospedali di Giuseppe Costantino Budetta, I gatti di Villa De Santis di Rossana D'Angelo, Camomilla per due di Renato Lonza, Novanta anni di Paolo Ragno, La pelliccina di Anna Maria Volpini

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Elvira Balestracci, Mariella Bettarini, Daniel Bosco, Miriam Cividalli Canarutto, Elisabetta Giancontieri, Renato Lonza, Gabriella Maleti, Maria Pia Moschini, Manuela Palchetti, Barbara Pumhösel, Paolo Ragni, Aldo Roda, Nicola Ruggiero, Roberto Veracini, Anna Maria Volpini

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici, in una lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie in lingua napoletana, esperanto ed inglese

Recensioni

Artico di Francesca Mattoni - recensione di Marco Simonelli
Impromptu di Amelia Rosselli - recensione di Marco Simonelli

Interviste

Intervista a Paolo Ragni: scrittore e poeta
di Massimo Acciai

Arte a Milano

Isola nell'Arte a Milano: un museo del futuro
di Alessandro Rizzo

La pelliccina
 

di Anna Maria Volpini


Il suono delle campane scandiva il tempo della nostra giornata - i contadini non avevano l'orologio al polso negli anni 30 del 1900! Ci si svegliava all'alba quando le campane suonavano per la prima S. Messa. A mezzogiorno ci indicavano la pausa del pranzo. La sera suonava "l'or di notte". Si ritornava a casa dopo una giornata di duro lavoro. La famiglia si riuniva per la cena.
Il Venerdi Santo, quando si legavano le campane per la morte di Gesù, la mia mamma mi portava con sé nell'orto perché era il tempo di seminare il prezzemolo, il basilico, le carote, la bietola e l'insalata, tutte piante molto importanti per il nostro sostentamento. Io giocavo vicino a lei (avrò avuto cinque - sei anni) oppure guardavo le formiche, rincorrevo le lucertole che si scaldavano al sole, andavo sotto al ciliegio e mi lasciavo cadere addosso tutte quelle bianche farfalle che si posavano per terra come tiepidi fiocchi di neve.
Qualche volta giocavo con una fune (mi piaceva tanto saltare) e se c'era anche mia sorella Ersilia giocavo con lei a piaccella sull'aia o si faceva l'altalena con una corda che il babbo ci aveva legato tra due alberi.
Quando si scioglievano le campane la mamma rastrellava le sue aiuole perché i semi s'interrassero bene e, così nascosti, non potevano diventare cibo per tutti quei passerotti che svolazzavano allegri tra
i rami degli alberi e le siepi di rose e rosmarino.
La siepe di rose fioriva a maggio ed io m'incantavo a guardarla, così bella con i suoi colori e così profumata. Maggio era il mese mariano. La mia famiglia era molto religiosa e nel salottino buono la mamma preparava un altarino con una statuetta della Madonna. Davanti ci metteva un vaso che aveva sempre dei fiori freschi. Io e mia sorella lo riempivamo di fiordalisi, di margherite di campo e si teneva tutto in ordine, pronto per la recita del S. Rosario.
La nostra era una famiglia numerosa e nel podere della Casa Nuova, sulle colline della Val d'Elsa, convivevano tre famiglie imparentate tra loro. Intorno alla tavola, nella grande cucina, sedevano più di dodici persone. La mamma apparecchiava sempre con la tovaglia bianca e con i piatti di ceramica che avevano intorno un righino d'oro. E poi, in cucina, c'era il lume a petrolio che pendeva dal soffitto, gli utensili di rame lucidato nella piattaia, le mezzine sull'acquaio di pietra, con l'acqua fresca della fonte ed il riverbero del fuoco sempre acceso per riscaldarsi e per cuocere i cibi.
Accanto alla cucina c'era la dispensa, il salottino "buono", il granaio, la cantina, le stalle. Al piano di sopra c'erano sette camere da letto - la sola intimità permessa in una famiglia patriarcale di allora! Meno di settanta anni fa e pare quasi la preistoria!
La tavola si allungava di parecchio quando sull'aia arrivava la macchina per battere il grano. Allora, aiutata da noi bambine e dalle vicine degli altri poderi - sempre tra noi contadini ci si dava una mano per i lavori più impegnativi - la mamma tirava fuori la tovaglia buona con i ricami e gli asciugamani con le trine, quel corredo da sposa che veniva mostrato con orgoglio.
In quell'occasione veniva preparato uno dei pranzi più succulenti tra tutti quelli dei miei ricordi d'infanzia. L'odore delle tagliatelle fatte in casa e condite col sugo del papero si mischiava a quello del formaggio, del vino, del vinsanto e dei dolci. Erano gli odori delle feste e dell'allegria.
Il vino stava nelle botti in cantina ed era sempre fresco e frizzante. Il babbo e lo zio erano gli esperti intenditori: quando si vendemmiava non lasciavano niente al caso. Ogni operazione aveva i suoi tempi ed i suoi riti. Anche noi bambine andavamo nel campo insieme agli altri. Il nostro compito era quello di raccattare i chicchi che cadevano per terra da qualche grappolo capriccioso, ma anche quello di riportare i panieri vuoti ai vendemmiatori, dopo che erano stati svuotati nelle bigonce.
I nostri due buoi - fedeli aiutanti del contadino quando arava la terra, seminava il grano, o doveva fare ogni genere di trasporto - attaccati al giogo tiravano il carro con le bigonce fino alla cantina, pazienti ed obbedienti alla voce dell'uomo.
In cantina c'erano anche due orci di terracotta, smaltata all'interno, grandi, panciuti, irraggiungibili ai miei occhi di bambina. L'olio che contenevano era prezioso, troppo prezioso perché noi potessimo toccarlo. Era un lavoro dei grandi, delle massaie. La mamma ci infilava un bricco che usciva gocciolante con un liquido denso ed odoroso come le olive alla spremitura.
Una volta andai col babbo al frantoio e mi sembrò di essere in un mondo incantato. Come girava quella macina di pietra che schiacciava con rumore quei frutti succosi che anch'io avevo raccolto alla fine di Novembre! Allora, quando le olive erano belle nere, si raccoglievano col cesto e si faceva tutto a mano e, poiché in quella stagione faceva sempre freddo, le mani si intirizzivano con grande facilità.
D'inverno la neve copriva i campi, l'orto, l'aia. Tutti gli alberi intorno casa mi sembravano fantasmi dalle bianche braccia. Noi si stava al caldo vicino al focolare e quando i grandi si radunavano per la veglia, anche noi bambine si poteva rimanere alzate.
Si giocava con le palline di terracotta (a cappe, col boro) o si giocava con le bambole. La mia nonna me ne aveva fatta una di cencio e le aveva fatto un occhio più piccino. Quando io glielo dissi lei rispose che non importava perché ci potevo giocare lo stesso. Dopo la veglia andavamo a letto con lo scaldino in mano e la mamma ci precedeva tenendo la bugia con la candela accesa. Che freddo quando ci si spogliava! E poi nel letto io stavo tutta rannicchiata ed appoggiavo i piedi sullo scaldaletto per riscaldarmi un po', ma quel calore non bastava mai.
La mamma mi metteva la camiciola fatta a mano con la lana di pecora che sulla pelle mi pizzicava tremendamente. Anche i nostri calzettoni ed i nostri golfini erano fatti in casa con la stessa lana, ma non bastavano a riscaldarci. Quando fischiava la tramontana ci venivano i geloni ai piedi e alle mani.
Un anno, per Natale, il mio babbo mi comprò una pelliccina sintetica che si chiamava SILISKIT .
Era di color rosa e mi piaceva tanto. Con quella pelliccia, con le scarpe di vernice ed il cappuccio in testa ero così bellina che mi portarono in paese a farmi la fotografia.
Avevo cinque anni quando incominciai ad andare all'asilo da Suor Camilla che ci diceva sempre in dialetto lombardo una buffissima frase - Cara tè! -
Tutti i giorni facevo la strada a piedi con altre due bambine più grandi di me. Nessuno ci accompagnava, ma questo era l'uso. Forse non c'era pericolo.
Non posso dire se quella vita fosse bella o brutta.
Per me era semplicemente la mia vita e con tanto piacere la ricordo adesso che sono vecchia ed ho quasi ottant'anni.

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