Eventi  -  Redazione  -  Numeri arretrati  -  Edizioni SDP  -  e-book  -  Indice generale  -  Letture pubbliche  -  Blog  -  Link  

  Indice   -[ Editoriale | Letteratura | Musica | Arti visive | Lingue | Tempi moderni | Redazionali ]-


Narrativa

Le coincidenze di Massimo Acciai e Andrea Mucciolo, Il cortile di Massimo Acciai, Il ritorno di Giovanna Casapollo, La ciabattina di Rossana D'Angelo, Creatura marina di Maddalena Lonati, Tornerò di Maddalena Lonati, Mani di Maddalena Lonati, Coincidenze di Antonella Pedicelli, Roby di Lenio Vallati, Le zanzare di Davide Zingone, La fuga di Davide Zingone

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Andrea Cantucci, Sonia Cincinelli, Giorgio Gazzolo, Eleonora Ruffo Giordani, Carolina Lio, Iuri Lombardi, Francesca Lombardo Di Rosa (file audio), Cesare Lorefice, Roberto Mosi, Michele Parigino, Dimitry Rufolo, Liliana Ugolini, Lenio Vallati, Anna Maria Volpini

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Lucia Dragotescu, Manuela Leahu

Incontri nel giardino autunnale

Intervista ad Alberto Toso Fei
A cura di Matteo Nicodemo

Recensioni

- "Parole e paesaggi" di Roberto Mosi, nota di Massimo Acciai
- "Itinera" di Roberto Mosi, nota di Massimo Acciai
- "O lupo è addiventato pecorella" di Dario De Lucia, nota di Massimo Acciai
- "Le inquietudini dell'esistenza" di Elena Gianolio Jung, nota di Massimo Acciai
- "Pittori Piuttosto Pittoreschi" di Massimo Zanicchi
- "Pensieri a banda larga" di Dimitry Rufolo, nota di Massimo Acciai
- "Come perdere la testa e a volte la vita" di Claudio Risé, nota di Enrico Pietrangeli
- "Mille parole" di Cesare Lorefice, nota di Anna Maria Volpini
- "Ci siamo" di Marco Ciurli, recensione di Elena Fratini
- "Premiata Forneria Marconi 1971-2006" di Donato Zoppo, nota di Enrico Pietrangeli
- "Una ragionevole strage" di Mireille Horsinga-Reno
- "Diary" di Chuck Palahniuk, recensione di Simonetta De Bartolo
- "Approdi" di Monica Osnato, recensione di Simonetta De Bartolo
- "Ogni angolo del cuore" di Francesco Cecchi
- "Viaggiando verso l'ovest" di Rossella Presicce

Saggi

I misteri della psiche: la sincronicità
Articolo di Antoine Fratini
Un dono di Serafino Beconi
Articolo di Antonio Carollo
Amore e amarezza per la Sicilia nella poesia di Margherita Neri Novi
Articolo di Antonio Carollo

Filosofia

La filosofia politica di Platone come filosofia pratica
di Apostolos Apostolou

La fuga
 

di Davide Zingone



Spuntava dai suoi occhi una lacrima
e dalle mie labbra una frase di perdono;
parlò l'orgoglio e si asciugò il pianto,
e la frase sulle mie labbra spirò.
Io vado per un cammino, lei per un altro;
ma pensando al nostro mutuo amore,
io dico ancora: "Perché tacqui quel giorno?"
E lei dirà: "Perché io non piansi?"


Gustavo Adolfo Bécquer (1836-1870)



Marco mi chiamò con un'ora di ritardo. Le batterie del suo cellulare si erano scaricate sul più bello, e lui aveva dovuto comprare una scheda e stava girando da un bel po' per trovare un telefono. In periferia le cabine telefoniche sono poche, e quasi tutte portano i segni visibili dello sfogo di qualche cretino: nel migliore dei casi le cornette sono staccate, i fili rotti, e i display sfondati o resi illeggibili dai chewing-gum attaccati ad arte.
Quando aveva trovato un telefono funzionante, non aveva ancora fatto i conti con il tipo che lo stava usando, un uomo di mezza età con una vistosa catena d'oro al collo, pesante abbastanza per sfamare qualche tribù affamata del Burundi. Si notava che stava parlando con la sua amante, perché la aggrediva con insulti di varia natura ricordandole di dovergli obbedienza e sottomissione. Marco si limitò ad ascoltare la conversazione nell'attesa che il gentiluomo finisse di inveire contro la donna, dando di tanto in tanto qualche colpetto di tosse con l'intento di richiamare l'attenzione sul fatto che stava aspettando già da un bel pezzo, e ne aveva ormai abbastanza, sia di ascoltare insulti che di aspettare. Alla fine l'uomo aveva riagganciato soddisfatto, forse per aver dimostrato a se stesso di essere ancora un uomo vero, e Marco aveva potuto chiamarmi. L'appuntamento con Claudio era fissato per le nove. Il piano era ben congegnato: saremmo andati a prenderlo in clinica, perché tanto non lo avrebbero operato prima di martedì, e con la complicità di mio cugino infermiere non sarebbe stato difficile farlo uscire e poi rientrare senza destare sospetti. E di lì via verso la città, per cercare qualche avventura lontano da questo mortorio in bianco e nero, dove le vite dei nostri genitori si sono pazientemente consumate senza scossoni, e senza mai sentire il desiderio, come noialtri, di fuggire via verso la grande città, dove nessuno ti conosce e nessuno se ne frega di te.
-Mamma, io esco. Non aspettarmi alzata, perché sicuramente farò tardi.-
La vecchia e fedele 127 di Marco era già parcheggiata vicino al lampione mezzo inclinato che sta sotto casa mia. Una scena ormai familiare, poiché si ripeteva tutte le sere ormai da qualche mese, cioè da quando Marco aveva rotto con Michela, la sua fidanzata. Quella Michela che una sera vedemmo scendere da una macchina scura e di grossa cilindrata, che fino a qualche minuto prima era parcheggiata nel campetto dove andavano tutte le coppie che volevano star da sole. Quella stessa Michela che diceva a tutti di amare Marco alla follia, e che ciononostante scese dalla macchina solo dopo aver ripetutamente ed appassionatamente salutato il suo accompagnatore, che non era Marco, perché Marco era con me poco distante, che tornavamo da una partita di calcio con gli amici del paese vicino. Quella Michela, sempre lei, che una volta mi aveva invitato a casa sua per parlare di Marco, e invece mi accorsi che non voleva esattamente parlare, e allora la chiamai per nome, che non era proprio Michela, e lui questo non lo sapeva, ma sapeva che è meglio un amico vero che una fidanzata finta, perché un amico vero non scende dalle macchine di grossa cilindrata, a meno che non siano di sua proprietà, e non accetta proposte delle ragazze altrui, soprattutto se-
Una pacca sulla spalla mi distolse dallo strano miscuglio di pensieri in cui mi ero immerso. Non mi ero neanche accorto che, nel frattempo, eravamo già arrivati alla clinica, e Marco mi stava invitando a scendere. Claudio ci aspettava in camera, al terzo piano, già vestito. Aveva anche appoggiato nel letto un paio di cuscini con addosso il suo pigiama, tanto per depistare eventuali controlli, ed evitare che l'infermiera entrasse in camera e trovasse il letto vuoto. L'effetto al buio era abbastanza realistico, anche se estremamente comico per noi che conoscevamo il trucco e sghignazzavamo senza ritegno mentre tempestavamo il povero pupazzo di domande su come si sentisse, e se gli avessero già praticato il clistere della sera. Ad accrescere la nostra ilarità ci pensò Claudio aprendo l'armadietto, che era diventato un vero e proprio arsenale alimentare: c'era di tutto, dalla cioccolata ai biscotti, dalle scatolette alle bibite. Si notava che era figlio di salumiere, e che non si era voluto far mancare niente neanche da ricoverato, mentre aspettava in quella clinica che gli operassero la spalla perennemente lussata. Prendemmo dei biscotti ed un paio di birre, nascondendo il tutto nello zainetto che avevo previdentemente portato con me, e ci avviammo tutti e tre verso l'uscita. Al primo piano incontrai mio cugino, che aveva già cominciato il turno di notte. In disparte gli spiegai che stavamo portando Claudio a fare un giro, perché non ne poteva più di starsene da solo nel letto a guardare la televisione. Il suo sorriso tra il compiacente ed il divertito fu il segnale di via libera, e senza aspettare ulteriormente uscimmo dalla clinica, con Claudio che cercava di nascondersi sotto il berretto che gli avevo regalato qualche tempo prima, mentre io e Marco cercavamo di non ridere per non richiamare l'attenzione sulla nostra fuga.
Arrivati alla macchina tirammo un sospiro di sollievo: ci sembrava che il più difficile ormai fosse fatto, e adesso ci aspettava qualche ora di diversione in città.

Il vialone. Una lunga striscia buia che porta dal nostro paese alla città. Case anonime bagnate dalla fioca luce di una notte senza luna, inframmezzate qua e là da vegetazione spontanea, e qualche albero spogliato dal caldo, o forse dalla noia, e le montagne scure in lontananza. Su quella strada i sogni e i desideri viaggiavano insieme a noi, e ogni tanto cadevano nelle grosse buche del fondo stradale.
- Oggi è stata un'altra giornataccia al lavoro. Giuro che uno di questi giorni strappo la lingua a qualche cliente e ci faccio la spugnetta per i francobolli -, disse ad un certo punto Marco, mentre gettava via dal finestrino l'ennesimo mozzicone di sigaretta. L'anonimo lavoro di cassiere nell'unico supermercato della zona cominciava a pesargli davvero, e più volte aveva cercato di convincerci a scappare via, tutti e tre, per cercare un lavoro in una città diversa, dove poter vivere, anziché vegetare. Claudio sorrise: - Non ti preoccupare, ce ne andiamo in Danimarca, da Majken. Ci ospita e ci aiuta a trovare un lavoro. Me lo ha detto e ripetuto tante volte. Basta mettere qualche soldo da parte.- Majken, la sua fidanzata danese, conosciuta due anni prima sulla spiaggia dove eravamo andati a passare il ferragosto. La scommessa era chiara: chi riesce a farla venire sotto l'ombrellone non paga la benzina. Era bella, con quella pelle dorata dal sole, e le cuffie del walkman che la isolavano dal mondo. Talmente bella che non ebbi il coraggio di disturbarla. E allora ci andò Claudio, che non conosceva più di due parole d'inglese, ma evidentemente l'amore è una forma di comunicazione animale che prescinde dalle nazioni e dalle lingue, perché si capirono subito piuttosto bene. Invece di portarla sotto l'ombrellone la portò sotto la pinetina dall'altra parte, vincendo una scommessa ben più grande.
I fari di un'auto che veniva in senso contrario illuminarono per un attimo il finestrino dal quale stavo guardando fuori. - Ma avete mai pensato a come sarebbe il mondo se non ci fosse l'Italia in mezzo al Mediterraneo? Ci pensavo stamattina. Niente impero romano, niente lingue neolatine, niente sonetto, niente Rinascimento, niente scoperta dell'America, niente pizza. Gli uomini sarebbero ancora dei barbari se non ci fosse l'Italia.- E Claudio cominciò a ridere e sghignazzare: - Ma pensa il punto positivo se non ci fosse l'Italia: niente mafia e camorra, niente disoccupazione, niente Juventus e niente bambini delinquenti nella casa sopra la mia. Che meraviglia!-
Da lontano si intravedevano le prime luci della città, e le macchine per strada erano aumentate. Erano le dieci di sera, eppure c'era tanta gente e tanta luce che sembrava fosse giorno. Ormai eravamo nel centro storico della città, dove la concentrazione di locali e di gente era altissima. Parcheggiammo nei pressi di una bella chiesa gotica, e ci avviammo tutti e tre verso il punto da cui veniva un vago rumore di musica jazz. Camminare per i vicoli del centro era affascinante per noi, e ormai li conoscevamo a memoria. Chissà quante volte li avevamo percorsi, con le mani nelle tasche, abbassando lo sguardo se incrociavamo qualcuno, e alzandolo immediatamente dopo, per goderci l'altezza dei palazzi, le statue messe lì apposta per noi, i muri che odorano di storia e le strade pavimentate di pietre che sanno di vita vissuta.
La musica si fece subito più forte e distinta. Nel locale stavano suonando una jam-session scatenata. Fuori c'erano alcuni ragazzi che discutevano della destinazione da prendere, perché una ragazza tra loro si lamentava e preferiva andare da qualche altra parte. Con quella minigonna avrebbe potuto farsi seguire in capo al mondo. Noi tre ci scambiammo uno sguardo di intesa, ed entrammo senza attendere lo sviluppo della discussione. Il locale era molto carino. Sembrava di essere in uno di quei pub che si vedono nei film americani, dove hai la sensazione che è possibile far succedere qualsiasi cosa in qualunque momento. Ai lati dell'ampia sala c'erano due file di tavolini gremiti di avventori, in fondo si era sistemato il trio jazz, ed al centro c'era un bel bancone con gli sgabelli, dove mi diressi facendomi seguire dai miei amici.

"Katia, non è possibile, è proprio lei!", dissi ad alta voce.
Avevamo preso posto sugli sgabelli del bancone e sorseggiavamo le nostre birre gelate, scambiandoci di tanto in tanto qualche bisbiglio, avvolti com'eravamo dal volume della musica. Tra un sorso e l'altro dal capiente calice di vetro spostavo lo sguardo nella penombra all'interno della sala. Mi sono sorpreso tante volte a scrutare con lo sguardo la gente assiepata nei locali notturni della città, forse per scorgervi qualche faccia amica, o solo per cercare di capire cosa hanno da dire gli occhi di chi si nasconde in mezzo a tanti altri occhi. Facce assonnate, annoiate o divertite, ironiche o ciniche, ma tutte perse, come noi, dietro a una vita che ti sfugge dalle mani.
Seduti attorno ad un tavolino poco distante da noi c'erano sei persone, quattro ragazzi e due ragazze. Cominciai a fissarne una perché mi sembrava di conoscerla. I lunghi capelli scuri, il modo di sorridere e di muovere le mani, quelle labbra rosse e carnose: sembrava proprio lei, anche se non sapevo ancora cosa ci facesse in quel locale.
"Katia? Ma di che parli adesso? Ti sei innamorato di una di quelle ragazze, per caso?", mi disse Claudio ridacchiando. Era alto e grosso, di una simpatia innata. Non ricordo di averlo mai visto triste. Ogni volta che stavamo insieme mi sentivo sereno. Indicai con un cenno della testa nella direzione dove sedeva lei: "Non ne sono ancora sicuro, ma quella lì mi sembra una mia vecchia amica del liceo." Avevamo sedici anni. Credo di non essere mai più stato innamorato da allora in poi. Sedevamo allo stesso banco, e a volte per timidezza non riuscivo neanche ad alzare lo sguardo verso di lei. Aspettavo che si allontanasse per scriverle delle frasi dolcissime sul diario, ma non avevo mai il coraggio di firmarle, per paura che scoprisse i miei sentimenti. E invece alla festa di fine anno mi chiese di ballare. Era un pezzo lento dei Queen. Stringerla a me e sentirmi venir meno fu tutt'uno. Ero emozionatissimo. Il fruscio dell'orlo del suo lungo vestito mi suscitava desideri più grandi della mia età, e la scarica di adrenalina, o la pazzia, mi diedero il coraggio necessario per guardarla negli occhi. Piangeva. Piangeva a calde lacrime. Per un anno intero non aveva trovato il coraggio, neanche lei, di confessarmi il suo amore. Sapeva che ero io a scriverle le frasi d'amore, sapeva che l'amavo teneramente e mi ricambiava con tutto l'ardore dei suoi sedici anni. Ma era troppo tardi. Il padre aveva trovato lavoro come ingegnere aerospaziale alla Nasa, e si sarebbe trasferito in America con tutta la famiglia la settimana dopo la fine della scuola. Non ci baciammo mai. Lei scappò via dopo avermi stretto più forte che poteva. Si fece negare al telefono nei giorni seguenti, ed io non ebbi mai il coraggio di andare a casa sua per parlarle. Il giorno della sua partenza tenni tra le mani il fazzoletto che avevo usato per asciugarle le lacrime. Lo bagnai di nuovo…
"Hai solo un modo per scoprirlo. Vacci!". Marco aveva ragione. Bevvi l'ultimo sorso di birra, guardai i miei amici mentre scendevo dallo sgabello, cercando di abbozzare un sorriso, e mi avvicinai al tavolino. Mentre avanzavo sentivo una strana sensazione di stretta alla bocca dello stomaco, come quella che sentivo quando entravo in aula per sostenere gli esami all'università. "Katia?". La voce mi uscì dalle labbra tremolante e a fatica. Era proprio lei. Era ancora più bella di come la ricordavo. Mi riconobbe subito, e mi sorrise come se non ci fossimo mai persi di vista. Chiese scusa agli amici che la accompagnavano e si alzò per venire verso di me: "Sono passati otto anni da allora, vero ?". Era tornata in città per qualche giorno, in visita da alcuni parenti, e i cugini l'avevano portata in quel locale. La città non le mancava affatto. In America stava benissimo e frequentava l'ultimo anno di college. Aveva intenzione di diventare giornalista per una testata nazionale piuttosto importante. Credo che restammo in piedi a parlare per cinque o sei minuti, ma stavolta la guardai negli occhi per tutto il tempo. Ormai ero cresciuto. Le chiesi di vederci il giorno dopo, per fare una passeggiata e ricordare i vecchi tempi. Lei accettò. Mi avrebbe chiamato l'indomani pomeriggio a casa. Marco e Claudio si avvicinarono. Era tardi e dovevamo ritornare in clinica prima che si accorgessero dell'assenza di Claudio. Feci le presentazioni, e dentro di me avevo un senso di orgoglio, come chi vince una lunga, lunghissima corsa. Katia fu molto socievole anche con loro. Mentre si scambiavano qualche convenevole, io mi allontanai alla ricerca del bagno. Forse l'emozione, o più probabilmente la birra aveva fatto il suo effetto. Quando tornai, Katia era di nuovo seduta in mezzo ai suoi cugini, mentre Marco e Claudio mi aspettavano sulla soglia dell'ingresso. Le feci un cenno di saluto con la mano, e mi avviai con loro verso la macchina.

La mattina dopo mi svegliai più presto del solito. Tornando a casa in macchina la sera prima, sia Marco che Claudio erano stati piuttosto silenziosi. Anzi, Claudio sembrava addirittura contrariato, forse perché non voleva tornare in clinica. Mio cugino, precedentemente avvisato, ci aspettava all'ingresso fumando una sigaretta. Prese Claudio sotto braccio e lo portò in camera. Senza aspettare, Marco ingranò la seconda e ripartì subito, e in pochi minuti arrivammo sotto casa mia. Non scambiammo neanche una parola, e la cosa mi sorprese alquanto. Di solito restavamo in macchina a parlare di sogni e di speranze e di ricordi, fino a notte fonda, e ci si lasciava solo quando si sapeva cosa avremmo fatto il giorno dopo. Invece quella sera Marco disse che era stanco e preferiva andare di filato a casa. Lo lasciai fare, tanto anche io avevo qualche altra cosa a cui pensare.
Feci colazione, ascoltai un po' di musica dal mio lettore cd mezzo scassato, accesi la tv e guardai l'orologio. Erano soltanto le 10 di mattina, e Katia non mi avrebbe chiamato che per le 5 del pomeriggio. Ero talmente impaziente che non riuscivo a trovare niente che mi distraesse. Fortunatamente mamma mi chiese di andare al supermercato a fare la spesa. Prima, quando c'era ancora papà, ci andavano sempre insieme al supermercato. Ma ormai, da quasi due anni, lei non era riuscita più a tornarci. Diceva che i ricordi la assalivano mentre cercava le mele migliori nel bancone della frutta, o mentre faceva la fila per pagare, e non le andava di farsi vedere in lacrime dalla gente del paese. Allora ci mandava me, un giorno si ed uno no. La lista era sempre la stessa: non potevamo permetterci follie, con quella benedetta pensione. Mamma aspettava con impazienza che l'unico figlio avuto da un matrimonio povero ma felice finisse gli studi e trovasse un lavoro che gli permettesse di vivere senza tante preoccupazioni. A volte pensavo addirittura che tenesse duro solo perché io avevo bisogno di lei. Presi i soldi e scesi. L'idea non mi dispiaceva affatto: al supermercato avrei incontrato di certo Marco, mi sarei distratto un poco facendo due chiacchiere, e magari gli avrei pure raccontato la mia eccitazione per la serata che dovevo trascorrere con Katia. Con mia sorpresa, Marco non era al suo posto di lavoro quella mattina. Una ragazza che lo sostituiva mi disse che si era dato ammalato per qualche giorno. La cosa era piuttosto strana: Marco non faceva mai festa al lavoro, e la sera prima stava benissimo. Tornai a casa con le buste della spesa che mi sembravano più vuote del solito. Mi misi subito al telefono: il cellulare di Marco era spento, e a casa sua mi risposero che era sceso molto presto senza dire niente a nessuno.
Pensai che si sarebbe fatto sentire prima o poi, e doveva avere una buona ragione per comportarsi così.
Guardai di nuovo l'orologio, e mezzogiorno era passato da pochi minuti. Mi stesi sul divano, accesi la radio e scelsi dalla vecchia libreria di mio padre un libro sulla conquista dell'America da parte degli spagnoli. Lessi per poco, poi mi venne improvvisamente sonno. Il tempo di chiudere gli occhi e mamma mi chiamò per il pranzo. Alle due del pomeriggio mi ritrovai di nuovo solo con me stesso e con la smania tremenda dell'attesa. Mancavano tre ore alla telefonata di Katia. Da un cassetto raccolsi alcune foto del periodo liceale. Non le guardavo da anni. Mi fece uno strano effetto rivedermi in quel ragazzo occhialuto, più piccolo degli altri, con un vistoso maglione di lana rossa che mamma mi aveva fatto con le sue mani quell'inverno. Tante sensazioni si affollarono dentro di me, tanto che non riuscivo più a distinguerle. La macchina del tempo è stata inventata già da secoli: i ricordi ci portano indietro e ci fanno rivivere le stesse passioni e le stesse emozioni che vivemmo in passato. E basta un niente per farla funzionare: una fotografia, un odore, un sapore, un fazzoletto, un libro con qualche pagina staccata…
Ad un tratto lo squillo del telefono: senza neanche accorgermene portai lo sguardo all'orologio. Erano le quattro meno cinque, non poteva essere Katia. Risposi. Era zio Pasquale che voleva salutare mamma. Tornai nella stanza e rimisi a posto le fotografie nel cassetto dei ricordi. Dovevo attendere ancora un'ora, poi avrei sentito Katia e ci saremmo messi d'accordo per vederci quella sera. Per me sarebbe stata una rivincita. L'avrei trattata proprio come se quegli otto anni non fossero mai passati. Le avrei dato dolcezza e attenzioni, l'avrei fatta sentire desiderata e vezzeggiata, avrei trovato il coraggio di dirle che non l'avevo mai dimenticata, che mi era bastato il suo sorriso per capire che l'amavo ancora teneramente come al liceo, e che per amor suo, se lei voleva, sarei partito per l'America insieme a lei. Avrei fatto di tutto per non perderla un'altra volta, adesso che l'avevo ritrovata.
Mi chiusi in bagno, mi feci una doccia e cominciai a radermi. Sapevo già cosa indossare: un bel pantalone classico ed una camicia mi avrebbero fatto sembrare più carino ai suoi occhi. E intanto erano le cinque meno dieci. Ormai da un momento all'altro avrei sentito la sua voce. Guardavo il telefono, guardavo l'orologio, guardavo lo specchio e tornavo con gli occhi al telefono. Ecco le cinque, finalmente! Pensai che al primo squillo la tensione si sarebbe sciolta in lacrime calde e singhiozzi. Camminavo come un forsennato da una stanza all'altra, un marasma di emozioni contrastanti mi toglieva il respiro. E intanto il telefono restava muto. E restò muto anche dopo le sei, e dopo le sette. Mi sentivo disperato, deluso, incapace. Avrei voluto gridare, piangere, colpire tutti gli oggetti che mi erano cari. Ma Katia non aveva chiamato. E non chiamò mai più. A dire il vero, avrei voluto distruggere anche il telefono, ma mentre stavo per scaraventarlo a terra per la rabbia, squillò. Non mi illusi. Era Claudio. E aveva qualcosa da dirmi che non mi sarebbe piaciuto.

Ci misi tempo a rispondere al telefono che squillava. Sapevo che non poteva essere Katia, anzi ormai non ci speravo affatto. Mi avrebbe addirittura dato fastidio. Alla fine presi in mano la cornetta più per non sentirla squillare oltre, che per sapere effettivamente chi fosse a interrompere il mio stato di prostrazione. "Pronto?". La voce mi uscì fuori dalla gola come un grido smorzato di rabbia, quella che stavo provando a reprimere dalle cinque del pomeriggio. Era la voce calda e baritonale di Claudio. Ma sembrava preoccupato e nervoso. "Non dovevi essere con Katia?". Quelle parole mi risvegliarono dal torpore. Lui sapeva esattamente cosa era successo, e perché ero ancora a casa alle nove di sera. Gli risposi con poche, precise parole. Katia non aveva chiamato, e ne ignoravo la ragione. E Marco non era andato al lavoro, e non rispondeva alle mie chiamate. Claudio abbozzò un rumore sordo, come di chi si schiarisce la gola, ma non per richiamare l'attenzione del pubblico, bensì nel tentativo smorzato di trovare le parole adatte a sopportare un carico pesante, molto pesante. Non disse altro. Capii tutto. Era chiaro. Mi sorprendeva il fatto di non esserci arrivato prima. "E' come penso io?". Gli chiesi. Un secco e lapidario "Si" fu la risposta, temuta ma certa. Un terremoto che distrugge tutte le costruzioni intorno nel raggio di chilometri e chilometri. Mi domando che senso abbia ricostruire tutto da capo dove non c'è più niente che rimanga in piedi, neppure la voglia di vivere. "Come è andata esattamente? Tu lo sai, dimmelo!". Quasi glielo ordinai, dimenticando che mi stava chiamando apposta. Il modo era stato talmente semplice da risultare addirittura offensivo. Ero talmente affascinato e perso dall'idea di aver ritrovato Katia, da non accorgermi che lei di tanto in tanto lanciava sguardi all'indirizzo del bancone, dove erano seduti Marco e Claudio. E i suoi occhi si erano fermati su di lui, e i suoi pensieri pure. Quando li presentai e mi allontanai per andare in bagno, ebbero tutto il tempo di guardarsi meglio, di sorridersi, come sorride chi si è compreso bene. Si scambiarono i numeri di telefono sotto gli occhi di Claudio, senza dirsi nient'altro. Lei tornò al tavolo con i suoi amici prima che io uscissi dal bagno, e ormai ero già stato iscritto, mio malgrado, a un gioco dalle regole crudeli. Ma soltanto per me.
Per questo Claudio e Marco non dissero una parola durante il viaggio di ritorno. Per questo Marco non volle fermarsi con me a parlare ancora un po'. Si sentiva in colpa, o forse gli facevo solo pena. La pena che ti ispirano le persone a cui fai del male. Salutai Claudio e lo ringraziai. Posai il ricevitore del telefono con una calma che mi sorprese. Mamma dalla cucina mi disse che era pronto a tavola. Era meglio andare. Marco non mi ha mai più cercato, nè io a lui. Forse qualche volta ha sentito la mia mancanza. Ti mancano sempre le persone che ti hanno voluto bene.
Ma sono forte. Sono il più forte di tutti. A due anni di distanza ho terminato gli studi e nell'attesa di un lavoro gratificante mi sono impiegato presso uno studio notarile del paese, dove ho conosciuto Francesca. Da cinque mesi ogni sera vado a trovarla a casa sua, e sogniamo di trovarci una casa e sposarci. Con il suo stipendio di donna delle pulizie ed il mio di impiegato di terzo livello possiamo soltanto pregare e sperare in un futuro migliore, e che arrivi presto. A volte non sono così sicuro che voglio sposarla. Preferirei andare ancora in giro con Marco e Claudio e pensare che fra un paio d'anni tutto sarà diverso. Ma ormai sono tornato a casa, e meno male: l'inverno quest'anno è freddo come non mai, e camminare da solo per una strada buia fa sentire ancora più freddo. Quasi quasi domani sera non ci vado da Francesca. Mamma dorme già. Speriamo che si sia ricordata di prendere le medicine. Mi stendo sul letto e riapro la lettera di Claudio. Fra due settimane si sposa con Majken. Ormai parla danese perfettamente, ed il posto in banca che gli ha trovato il suocero gli permette di realizzare tutti i suoi sogni. Dice che vorrebbe che andassi a trovarlo, ma con mamma malata non credo che potrò arrivare in Danimarca. Ha notizie pure di Marco. Ha avuto un bambino da Katia. Lo hanno chiamato Michael. Hanno preso la cittadinanza americana. Ripiego la lettera e la getto sulla scrivania. Mi rialzo. Getto un'occhiata fuori dalla finestra. Il lampione sotto casa mia è sempre mezzo inclinato. Mi sembra di vederci sotto la 127 verde di Marco.

Segreti di Pulcinella - © Tutti i diritti riservati