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Narrativa

Top nonik (prima parte) di Massimo Acciai, Spasmodiche riflessioni di Giuseppe Costantino Budetta, Sylvia (dedicato a Sylvia Plath poetessa suicida) di Rossana D'Angela, Prologo alla Valle del Belice di Paolo Filippi, Sogno letterario della principessa di Paolo Filippi, Introduzione alla Shoah di Paolo Filippi, Una sera a teatro di Elisabetta Giancontieri, La banda dei fiammiferi di Iuri Lombardi, Il poeta di Maddalena Lonati, Il testimone di Maddalena Lonati, Jedan tajanstven caroban aparat (Un misterioso magico congegno) di Renato Lonza, Il giorno in cui imparai a fare la fotosintesi clorofilliana di Antonio Piccolo, Gamberoni arrosto di Anna Maria Volpini

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Rossana D'Angelo, Cesare Lorefice, Renato Lonza, Michele Parigino, Enrico Pietrangeli, Federico Pennese, Valeria Vallucci, Anna Maria Volpini

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Amanda Nebiolo

Aforismi

10 AFORISMI in poesia...
di Andrea Cantucci  

Saggi

Il mito di Orfeo nell'opera di Jean Cocteau di Caterina Rocchi

Recensioni

Insomnia di Lisa Massei, nota di Enrico Pietrangeli
Presagio triste di Banana Yoshimoto, recensione di Simonetta De Bartolo
Orgianas di Daniela Bionda, nota di Enrico Pietrangeli
Rosso di Cinzia Tani, nota di Enrico Pietrangeli

Il poeta

 

di Maddalena Lonati


Indossava un cappotto che un tempo doveva essere stato verde bottiglia. Sostava dinnanzi ad un portone di noce sbalzato, seduto sulla scalinata d'ingresso, la postura dignitosa e i pantaloni grigi bucati. Così da quando ho memoria. Non ricordo d'esser mai passata da quella via senza vederlo.
Quando frequentavo il liceo passeggiavo spesso per il centro di Milano, l'adolescenza ha bisogno di rumori per sovrastare l'urlo interiore. Mi stordivo di colori chiassosi che mi chiamavano dalle vetrine e cedevo allo shopping compulsivo accumulando vestiti che non avrei mai usato e imitavo modelle anoressiche che mi controllavano dai manifesti e sghignazzavo con amici che non avrei più frequentato e salivo spintonando su tram arancione e preferivo lo smog all'aria di montagna e giudicavo chi passava per strada e contestavo le istituzioni e mi truccavo e ringraziavo del caos che mi illudeva di essere viva.
Lui scriveva.
Lui era immobile.
Lui era silenzioso.
Lui non aveva nome, era solo "il barbone", aveva acquisito la dignità dell'articolo determinativo perché era quello che incontravo ogni giorno. No, non lo incontravo, lo vedevo. Incontrare mi dà un senso di casualità, o di movimento da parte di entrambi. Lui ci sarebbe stato. Sempre. E non andava da nessuna parte. Semplicemente lo vedevo, e così non era più "un" barbone, era emerso dalla massa degli anonimi straccioni che si confondono nella metropoli. Barboni, straccioni, accattoni: la lingua italiana non ha grande pietà per questi sfortunati, e l'adolescenza ancora meno. Senzatetto, mendicanti, forse sono termini meno brutali, ma non li usavo. Homeless mi sembrava un'inutile esterofilia, clochard un suono troppo romantico per una città pragmatica come Milano.
Gli passavo davanti fintamente sicura nei miei jeans aderenti e lui era solo una macchia indistinta nell'angolo dell'occhio. Non aveva più significato o valore di una gargouille sulla facciata di un palazzo.
Eppure a volte mi soffermavo a guardarlo.
Quando la mia giovinezza mi torturava con malinconie immotivate, lui diveniva il simbolo del mio disagio che prendeva qualunque sembianza, incarnava la paura improvvisa di tendere un giorno la mano a passanti distratti, presagivo un futuro di fallimenti e di solitudine, allora gli indirizzavo un sorriso appena abbozzato e abbassavo subito gli occhi temendo che mi rivolgesse la parola. Mi sentivo impacciata all'idea di conversare con lui. Cosa si può dire a chi non ha nulla? A chi non fa nulla? Frasi stereotipate intervallate dal silenzioso disagio di chi non sa come proseguire. Non capivo che lui aveva e faceva più di me. Ero solo una ragazzina convinta di aver esperienza di vita e celavo presto il mio malessere entrando in un negozio qualunque ad acquistare l'ennesimo oggetto inutile. Ma in quei rari momenti in cui cadeva l'arrogante maschera di un giovane corpo in abiti griffati lo guardavo davvero. E mi interrogavo. I condomini dell'elegante palazzo sembravano essere tolleranti nei suoi confronti, da anni lo lasciavano sostare sul secondo gradino, ma non credevo che facessero più di questo. Li vedevo entrare e uscire indaffarati, uomini in grisaglia e ventiquattrore e donne in pelliccia e cagnolino con guinzaglio di strass, ma a nessuno interessava più della statua all'ingresso che intravedevo quando si apriva il portone. La scultura della dea Fortuna, con occhi bendati e cornucopia. E noi eravamo più ciechi di lei.
Mi chiedevo cosa si provasse a guardare sempre gli altri da quella prospettiva schiacciata, veder passare migliaia di scarpe e di gambe senza forse aver più il desiderio di alzare il capo e cercare un viso compassionevole. E mi domandavo perché, nel suo incessante scrivere, non avesse preparato un cartello. Quasi tutti cercavano di impietosire spiegando la propria situazione, o solo esplicitando la richiesta di un aiuto che non sarebbe bastato mai a salvarli, ma lui no, lui era muto. Sapeva che a nessuno interessava davvero, perché aggiungere spiegazioni ai suoi tipici guanti neri senza dita? Sembrava non attendere neppure che qualcuno gli lanciasse una moneta. Appariva sereno. Più di me.
In primavera il cappotto finiva in un sacchetto e riapparivano una lisa giacca blu e un foulard che chissà chi gli aveva regalato. Le signore col cagnolino indossavano tailleur pastello e continuavano ad ignorarlo in ogni stagione.
Rare volte però l'ho sentito parlare, la voce ruvida come un sacco di tela grezza e gli occhi finalmente rivolti in alto. In quelle occasioni ho rallentato il passo per cogliere qualche parola, ma mai abbastanza da ricostruire un discorso. Qualcuno più generoso di me si fermava per donargli un suono diverso dai clacson e dallo sferragliare dei tram. Ed io mi domandavo se sarei mai divenuta migliore.
Un giorno un amico mi disse che il barbone era un poeta. Un vero poeta, volle sottolineare. "Sì, dice di essere nipote di Pirandello. No, di Montale. Non so, non ricordo… comunque è un vero poeta." Non seppe spiegarmi altro. Ma da quel giorno per me fu "il poeta", e quando salivo sul 29 gli lanciavo un'ultima occhiata e fantasticavo sulle sue poesie.
Passò la moda degli jabot, le minigonne a piegoline vennero rimpiazzate da abiti lunghi, scarpe a punta quadrata vennero cancellate da quelle tonde e poi affilate, e lui sostituì il cappotto verdone con la giacca blu, e poi col cappotto verdone e con la giacca blu. E ancora. E ancora.
Strano che non lo sappia descrivere se non per elementi esterni, non riesco a ricordare il colore dei suoi occhi, i capelli di un indistinto castano, il viso come tanti. Non lo vidi invecchiare, per me era sempre identico a se stesso, ormai solo simbolo del disagio e dell'arte incompresa. Riesco a focalizzare bene solo le mani sciupate, quelle dita lunghe e nodose che sbucavano da guantini sfilacciati, dita sempre in movimento, sempre a creare, mani espressive avvilite dall'indifferenza altrui. Talvolta accendeva un fiammifero, e il volto veniva rischiarato in mezzo alla nebbia, poi tornava a mimetizzarsi nel grigio dell'asfalto per non dar fastidio.
Stavo camminando a passo sostenuto, ormai gli impegni di lavoro non mi consentivano più le pigre passeggiate liceali, quando un ragazzo entrò nella portineria del mio poeta. Oltre il pesante portone intravidi la mia immagine riflessa sul vetro all'ingresso. Fu un attimo. La mia figura trasparente fu sovrapposta alla sua sul gradino, per un istante lui ed io fummo vicini come non mai. Io ero cambiata. Lui no. Ero divenuta una giovane donna, la maturità aveva spodestato la freschezza di qualche anno prima, avevo abbandonato i jeans per sobri tailleur e non sapevo che fine avessero fatto gli amici con cui trascorrevo i pomeriggi. Lui era rimasto immutabile nella sua fissità di emblema di un mondo che non avevo voluto conoscere.
Il giorno dopo mazzi di eleganti rose e variopinte orchidee ricoprivano i gradini. Il poeta era morto all'improvviso, e tanti gli rendevano omaggio. Sul portone c'erano appese le sue poesie. Piansi silenziosamente mentre bevevo il cappuccino, il barista mi chiese se poteva fare qualcosa e io negai col capo. Mai avrei supposto che così tanti lo conoscessero, che in qualche modo si fossero presi cura di lui, avessero letto le sue opere e gli si fossero affezionati. Avevo perso un'occasione, i nostri destini erano corsi paralleli senza mai incrociarsi davvero, ed ora proseguivo con un rimpianto in più.
Ora i suoi poveri beni che gli erano rimasti incrostati addosso per tanti anni sarebbero stati ereditati da un altro barbone, la povertà non conosce sprechi, ed il cappotto che un tempo doveva esser stato verde bottiglia ora avrebbe scaldato altre sofferenze. Ora il secondo gradino sarebbe rimasto libero, più agevole il passaggio dei condomini indaffarati. Ora forse qualcuno si occuperà della pubblicazione delle sue tante poesie, è frequente la gloria postuma. Ora non rallenterò più il passo per ascoltare la voce granulosa mentre con gli occhi spazzo il marciapiede. Ora lui è uscito dal tempo ma forse è entrato nell'immortalità. Ma io non lo saprò mai, non ho mai conosciuto il suo nome, non potrò mai rintracciare i suoi versi se qualcuno li ha salvati dall'oblio. Era solo il barbone, il poeta. Forse ha scritto capolavori per i quali un giorno l'umanità gli sarà riconoscente, o forse no. Forse solo io l'ho richiamato un istante dalla Morte per farlo vivere in queste righe e farlo sfiorare dall'eternità che forse cercava. Forse.
So solo che indossava un cappotto che un tempo doveva essere stato verde bottiglia.

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