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Narrativa

Top nonik (prima parte) di Massimo Acciai, Spasmodiche riflessioni di Giuseppe Costantino Budetta, Sylvia (dedicato a Sylvia Plath poetessa suicida) di Rossana D'Angela, Prologo alla Valle del Belice di Paolo Filippi, Sogno letterario della principessa di Paolo Filippi, Introduzione alla Shoah di Paolo Filippi, Una sera a teatro di Elisabetta Giancontieri, La banda dei fiammiferi di Iuri Lombardi, Jedan tajanstven caroban aparat. = Un misterioso magico congegno di Renato Lonza, Il giorno in cui imparai a fare la fotosintesi clorofilliana di Antonio Piccolo, Gamberoni arrosto di Anna Maria Volpini

Poesia italiana

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10 AFORISMI in poesia...
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Insomnia di Lisa Massei, nota di Enrico Pietrangeli
Presagio triste di Banana Yoshimoto, recensione di Simonetta De Bartolo
Orgianas di Daniela Bionda, nota di Enrico Pietrangeli
Rosso di Cinzia Tani, nota di Enrico Pietrangeli

La banda dei fiammiferi

 

di Iuri Lombardi


Non saprei dirvi con certezza - s'intende, l'ignoranza è gratuita sempre - se ciò che si definisce cronaca necessita per forza d'essere scritta. Certo, avete perfettamente ragione - chi di noi è in torto, quello sono io -, una cronaca il più delle volte è scritta. Mi spiace smentirvi, ma devo farlo: in questo caso nessuno ha scritto nulla, si tratta di un evento mai riportato sui giornali ma solo sulla bocca dei beceri, del popolino che improvvisa sempre teatrini di poco conto, almeno per quanto ne sappia. E non perché l'accaduto non sia degno della penna di un giornalista o di un free- lance, ma semplicemente, almeno credo sia questa la spiegazione, è rimasta una storia dimenticata. Secondo quanto mi hanno raccontato, l'incipit di questa cronaca ha inizio una sera, sull'ora di cena.
Tommaso, detto da tutti in paese Tummasì, era seduto davanti al fuoco, in cucina. Era solo. Sua madre, donna Matilde, si era coricata poco prima, dopo aver spazzato il pavimento, rigovernato, scosso la tuaglia . La stanza era buia e la luce della fiamma la illuminava di un rosso tenue, sottile che donava conforto e calore. Il fuoco piaceva al ragazzo così tanto che lo spronava a riflettere, a meditare tante cose sulla sua vita e su quella degli altri. Tommaso era un ragazzo sveglio, di un'intelligenza contadina, tutta scarpe e cervello fino, nonostante avesse conseguito solo la seconda elementare.
Spesso, davanti al fuoco ci restava ore. Il fuoco, soprattutto per una questione geografica, è da sempre al centro della quotidianità in certi paesi. Il più delle volte è un punto di ritrovo, intorno al quale si parla, si litiga, si ama, si scambiano l'effusioni sentimentali, si contano - nel caso esista un passato su qualcosa - gli amori perduti, le coincidenze perse, gli assenti. Attorno al calore della fiamma piace credere si sia riscaldato, tra ironismi, massime e speculazioni filosofiche, Giacinto Albini , Bartolomeo D'Amico , oppure i briganti nelle grotte, nell'ora in cui discorrevano del proprio tempo e delle battaglie, mentre assorti contavano i caduti sul campo.
Nel silenzio della cucina ora Tommasino pensava. Era assorto nei suoi pensieri e il pensare gli faceva compagnia. Dalle finestre penetravano le voci della gente che per strada passeggiava. Il silenzio sembrava invadere ogni cosa e l'unico modo per non sentire la solitudine era riflettere. La luce del cacciafumo , sottile come riccioli di rame, colorava le pareti di rosso e nella penombra l'unico cenno di vita, oltre le voci di fuori, era il respiro della madre che dormiva. A sorprendere Tommaso davanti al fuoco fu l'arrivo di Gennarino, il suo amico, che venne a chiamarlo invitandolo ad una festa a casa di Rocco.
"Na' festa? Non ne saccio niente, di sta'festa", "Una festa? Non so niente, di questa festa" - disse all'amico.
" Sì, è ddu a'Rocco. E' tornato u' ziano d'America e accussì…Dai vistit che jammo", " Sì è da Rocco. E' tornato suo zio dall'america e così… dai vestiti che andiamo".

Fuori nevicava. Una coltre di neve, che superava il metro, rendeva il paese diverso, silenzioso e dormiente. Il bianco luccicava sotto un cielo di nubi e nel buio l'aria era limpida e pungente. I due ragazzi ora si inoltrarono verso la piazza del paese con l'intenzione di chiamare anche Antonio, l'altro amichetto, e in seguito Michelino, il più piccolo della compagnia. Arrivati sotto casa di Rocco, sotto le scale che portavano all'appartamento, sentirono le voci animare il vicolo, gli echi delle risate cozzare col silenzio della strada, l'ebrezza dello svago. Michelino chiamò il compagno più volte, ma a causa del rumore l'amico non rispose. Nonostante facesse freddo, avesse nevicato per tutto il pomeriggio e la notte precedente, i ragazzi volevano ugualmente uscire, ritrovarsi com'era loro solito. Erano un bel gruppo, o meglio una banda come li chiamavano al paese: "la banda dei fiammiferi". Soprannominati così per la loro passione di accendere falò ovunque si trovassero. Una passione tanto pronunciata da rasentare il misticismo espressivo di una tipica vocazione celestiale. Accendere fuochi, vederne divampare la fiamma, regalava loro un senso di serena armonia col mondo, con il creato che dicesi - tanto per mettere in dubbio l'esistenza o meno di un essere superiore - li metteva a contatto con Dio. Il loro santo preferito, del quale sapevano tutto da fare invidia agli agiografi più scaltri, era Sant'Antonio, il protettore del fuoco.
Rocco, forse per il rumore della festa, non riusciva a sentire la voce dei compagni, così Michelino decise di salire le scale e bussare alla porta di casa. La casa di Rocco era una di quelle tipiche abitazioni lucane, bassa e dai muri appena ricoperti di calcina grezza, dove all'esterno si pronunciava una rampa di scale che metteva in comunicazione la casa con il vicolo. La piccola mano bussò alla porta e venne ad aprire la madre del ragazzo che si apprestò a chiamarlo, avvertendolo della presenza dei compagni. Ora il gruppo era al completo e poteva inoltrarsi per le strade semivuote e bianche mettendo timore agli adulti per le marachelle. Salendo verso la piazza, passando dalla periferia, dove una striscia di case delimita l'abitato dalla campagna, il paese comparve loro quasi dormiente. Sembrava essere dipinto sotto un cielo scuro e pesto che solo il bianco delle strade, riflettendosi, rendeva ancora più minaccioso. Sui tetti delle case cadeva una nebbia leggera e in lontananza, forse dal fondo delle campagne, si sentivano dei latrati. Sotto le romanelle dei cornicioni, i nidi delle rondini erano aperti e ricoperti di neve e solo qualche pettirosso svolazzava sfidando il vento e la nebbia. Le case, una sopra l'altra, formando a gradi una corona infinita, salivano sino all'estremità del Siri in un susseguirsi di vicoli e archi come note di una melodia per violino. Salendo sino alla piazza, per strada i ragazzi non avevano incontrato nessuno: tutto sembrava dormire da giorni. Gli asini, custoditi nelle loro mangiatoie, dietro logore tavole da lavoro, inchiodate per delimitare la stalla dalla strada, s'affacciavano col muso annusando, tra il silenzio, la sera invernale. Dicono che fosse - almeno secondo il calendario - la notte dell'epifania, giorno in cui, secondo le dicerie di paese, gli animali si mettono a parlare dando inizio ad un concerto di sole parole che, solo chi ha la sensibilità d'ascoltarle, somiglia ad un'esibizione di mille ottoni stonati.
"A'mma fen quaccosa ppa'beffana", "Dobbiamo fare qualcosa per l'epifania" - disse, pronunciando un timido sorriso, Tommaso.
"E cosa a'mma fa?", "E cosa dobbiamo fare" - gli rispose Michelino.
"Tanto solo u carvone ci porta. Per adesso appicerrei u'fuoco", "Tanto solo carbone ci porta, per adesso accenderei un falò" - rimproverò con un certo carisma ai due amichetti, Gennarino.
Detto fatto. D'altronde come bene si dice tutto ha inizio dal verbo, e il verbo è azione. Tommasino, a sua volta, chiese chi di loro tenesse in tasca la scatola dei fiammiferi e Rocco si precipitò verso valle in cerca della legna, sparendo nel nulla in una ripida discesa di scale. Poco dopo, all'argo del corso principale, che a forma d'imbuto collega Piazza Dante Alighieri con la piazzetta, un fuoco di rami divampava minacciando di luce il buio dintorno. Adesso, dopo la fatica nell'aver cercato la legna e dopo l'ebrezza della bramosia nel veder prendere alito la fiamma, i ragazzi si erano messi intorno al falò in semicerchio, discorrendo delle loro avvincenti imprese. No!, nulla c'entrano i cavalieri, l'armi e gli amori, perché le loro imprese, se pur valenti nella loro lirica epica, si limitavano a qualche burla o infuocato gioco infantile, tipo il lancio dei bottoni contro il muro, o, ancor più eroiche, aver tolto il cappello ad un vecchio o aver risposto male ad un contadino di ritorno dalla campagna. Burle, insomma, o pure dette ciognarie ,secondo il vernacolo del luogo. A Michelino venne fame e chiese ai compagni se potevano accompagnarlo al forno, visto che del falò non rimaneva che dei carboni ardenti e nulla più. Vista l'ora, che Gennarino costatò, secondo il suo modo d'osservare la luce lunare, decisero di seguirlo e dietro di lui si diressero verso il forno, a pochi passi da lì. Appena varcati la soglia si trovarono davanti all'ennesima sfuriata del fornaio, che concitato, per non dire inferocito, rivolgendosi alla moglie e alle figlie presti, Angelina e Rosa, fregandosene dei clienti, rimproverava il fatto di come donna Lisa, la corletana, fosse riuscita ancora una volta ad entrare in bottega a porte chiuse fregandosi la vreia .
"Quella schifosa, purcaria, na'ta vota se fottuta a'vreia", "quella schifosa, porcheria, un'altra volta si è fregata la brace" - diceva a voce alta.
Il ragazzo cercò di farsi strada nella ressa della bottega senza timidezza né, tantomeno, senza il minimo timore nei confronti dell'uomo che sbraitava inferocito. Le donne in attesa riconobbero Michelino e lo fecero passare avanti senza esitazione, tormentando tra le mani, forse per ingannare il tempo, i timbri di famiglia . Michelino allungò così l'esile mano per prendere la focaccia appena sformata regalando, ad Angelina che stava alla cassa, un fico secco, il trofeo che poco prima aveva vinto al gioco dei bottoni. Si trovavano di nuovo in strada a pensare come finire la serata prima di coricarsi nel calore delle lenzuola lavate in acqua di fiume. Tommasino per ingannare il silenzio e la noia si mise a cantare e in coro i compagni lo seguirono dando vita ad un concerto stonato: Vierno che freddo dinta stu'core/ vierno e chiove chiove a na' semmana. Decisero così di ritirarsi in una taverna dove avrebbero potuto sfidarsi a carte e bevuto vino, fumandoci sopra un sigaro toscano. Tommasino spesso ricorreva col pensiero a sua madre, da tempo malata e sola. Suo padre era morto in giugno e da allora donna Matilde sembrava spegnersi giorno dopo giorno. Sembrava cadere in un baratro senza la possibilità di salvarsi. Ogni giorno il corpo di quella donna solare ed energica sembrava impallidire, farsi piccolo, e a Tommaso non restava che assistere l'evoluzione della malattia che, secondo quanto mi hanno raccontato, neppure il medico condotto riusciva a diagnosticare. Su di lui gravavano ora un sacco d'incombenze, a cominciare dalla cura delle capre che ogni giorno dovevano essere portate a riva del fiume a pascolare. Poi c'era il problema delle vacche, anche se erano solo due, e dei cani, dei maiali, del grano da mietere nel mese di agosto, delle braccianti da pagare, delle spigolatrici che offrivano la loro prestazione pure in tempo di vendemmia. Poi la casa in paese. La piccola casetta dove viveva con sua madre da pulire, da tenere in ordine, dove mai mancava da lavorare. Ogni giorno il medico condotto faceva visita a donna Matilde, ogni giorno per Tommasino era un giorno di fatica. Il medico, pace all'anima sua, pretendeva che in casa, soprattutto in camera, ci fosse pulizia che, come era solito affermare, secondo lui era il principio della guarigione. Certo, il principio della guarigione! Parlava bene il dottore; lui che era sempre allegro nel suo abito di velluto nero, con le mani nel panciotto e col servetto sempre dietro a porgergli la borsetta da lavoro. Ma per Tommaso la vita era ben altra cosa. Sin da bambino aveva vissuto nella povertà, nel dolore in cerca di quel riscatto sociale che sempre si attardava a realizzarsi. E, allora, aveva ragione se a sera si concedeva alle scorribande con gli amici, o durante le feste comandate. Aveva ragione su tutto quello che faceva, povero cristo. A chi la vita a regalato cavci sup u'muss , in qualche modo deve difendersi, trovare una via di fuga che ne sdrammatizzi la tragedia. E per Tommasino sdrammatizzare ciò che gli stava succedendo era proprio questo: andare con gli amici e fare baldoria, accendere in nome di Sant'Antonio fuochi ovunque, maledire il cielo, fare il filo a qualche ragazza nei timidi pomeriggi nottetempo. Per lui fare ciò che faceva era normale, forse anche un motivo di riscatto, quel senso di rivalsa che non aveva mai degustato il sapore, pure essendo consapevole certe volte d'essere scambiato, a forza di fare il pagliaccio, per una maschera della commedia francese. E bene sì, questo lo sapeva, ne era pienamente consapevole ma non poteva comportarsi altrimenti. Da anni, e soprattutto dopo il dolore per la perdita del padre, sentiva in lui crescere quella rabbia che solo a pochi s'addice. Per non parlare del suo rapporto con Dio, certo, un'inimicizia direi, senza mai cadere nell'ateismo, perché pensava, pur essendo giovane, che non credere fosse una rivincita dovuta. Un rapporto di fede ma contrassegnato dalla rabbia, da infinite contraddizioni, da infelici pernacchie, che solitamente, affacciandosi timidamente in chiesa, rivolgeva al crocifisso. Insomma, sentiva l'urgenza di un riscatto interiore forte, pronunciato. Era un ragazzo ma dalle conclusioni che traeva, talvolta dialogando in strada con gli amici, sembrava incarnare il pensiero di un adulto. Riflessioni che spesso armonizzava con silenzi profondi o parlando con se stesso, talvolta in riva al fiume in attesa che le capre tornassero dal pascolo. Tommasino, insomma, si sentiva ferito e non ci voleva tanto a comprendere il suo stato d'animo simile, molto simile, a quando si sta per versare del caffè in un bicchiere e si nota sul fondo tra lo zucchero del finto sporco che si tenta di cacciare, quando invece altro non è che un'ombra riflessa. Accendere falò con i compagni, oltre ad essere uno sfogo, rappresentava una forma di svago, un'occasione per ridere sulla vita, come quella volta per la festa del patrono, durante l'ora della processione, che a causa loro per poco non saltava la tanto - allora più di oggi - attesa ricorrenza.

Secondo quanto riferisce la gente, durante la mattina del sette agosto del millenovecentoquarantasei, nell'ora in cui il paese s'apprestava a vivere la commozione del santo patrono, Tommasino e compagni, spinti dall'impeto, dal profondo credo, di cavalieri d'arme e d'amori, appreso chissà dove, probabilmente da una rapida lettura scolastica, tanto sommaria quanto non degna dei versi di Ludovico Ariosto, inscenarono la più rocambolesca sequenza di falò che per poco non mandò a farsi friggere per quell'anno la processione. I Guagliò tanto si misero d'impegno, organizzandosi la sera della vigilia, che appena l'alba cominciò a impallidire il cielo notturno, sporcando i tetti da brevi riflessi rosati, indossando sporchi e sdruciti abiti, scesero in strada per spartirsi i compiti della festa che avevano in progetto di celebrare, la controfesta come dicevano loro. Michelino era destinato a radunare una catasta di legna che, a discapito dei familiari, trafugò con passione dallo scannatoio di famiglia. Rocco, allegro di mandare in aria la festa di un santo che non portasse il suo nome, si mise per ore ad osservare, davanti alla chiesa, i movimenti del parroco. Tommaso, che con difficoltà si stenta a non definire il regista della trovata, assieme a Gennarino, cercava di ingannare il tempo contando le teste azzurre che tra non molto avrebbero dato vita alla controfesta. Ora tutto tornava. Tutto cadeva a pennello, tanto che, vista l'ora, decisero di riposare prima dell'evento. La processione dalla notte dei tempi si festeggia alle due del pomeriggio, ora in cui arriva, col santo in prima fila portato sulle spalle e seguito da tanti bambini vestiti come lui per devozione, sul sacrato della chiesa madre. Alle una meno cinque i ragazzi erano già sul luogo del loro set immaginario. Il primo falò, il più grande, doveva essere appizzicato sotto la volta della piazza, pronto a non fare salire la processione impedendole di raggiungere il sacrato della chiesa. Il secondo sarebbe divampato a valle, quasi all'inizio del borgo, a ridosso delle pareti rocciose, sul lato sinistro della cappella di Sant'Antonio da Padova, antica sede dell'ormai smantellato convento francescano. Il terzo, figlio dell'impeto e della passione, le cui fiamme avrebbero dovuto sfiorare il cielo, da fare invidia ai circensi di fama, che da quel giorno in poi si sarebbero rosicati i calzini dei loro piedi, era pronto all'estremità del paese, facendo da cintura all'abitato che, a quanto pare, adesso era isolato dalle fiamme. Quando le campane suonarono, annunciando l'arrivo della processione, Tommasino, a differenza degli altri amichetti, si godeva il clima mistico delle donne genuflesse in chiesa che, tra un'Ave Maria e un Pater Nostro, attendevano il busto gambizzato di Santo Donato. Michelino, Gennarino e Rocco, dicono, ridessero a crepapelle dietro le rocce, osservando con discrezione la processione che lenta procedeva sulla strada in salita. La fratosca sgomenta per il ritardo cercava, tormentando i rosario che custodiva tra le dita, di allungare i tempi delle preghiere tra il sudore delle donne e il suono delle campane. Intanto a valle era giunta la processione. La gente accaldata dalla fatica e dalla calura, assonnata e commossa, rimasta priva d'acqua, dai ceceli vacanti , cercava di farsi forza e, chiedendosi stupita del perché ci fosse il fuoco, tentava di posare la testa, una dopo l'altra, scambiandosi il turno, sul busto gelido del santo, mentre con le dita afferrava i denari donati al patrono per usarli come fazzoletti nell'asciugare le loro infuocate fronti. Comunque lo spettacolo agli occhi dei tre amichetti non fu questo, quello che stava succedendo era poco rispetto al caos che sarebbe dovuto esplodere in poco tempo. Anzitutto c'era da ridere per l'espressione inferocita del prete che, intelligente come una faina e astuto come un sapiente teologo o topo di biblioteca, mangiandosi la foglia, stentava a impazientire la folla, soprattutto le donne che adesso, giunte all'estremo delle forze, svenivano tra le braccia sue e all'ombra del Santo busto, inscenando, senza sapere, una scena michelangiolesca che, con tutta probabilità, non degna di simile allusione, il Buonarroti avrebbe sicuramente repressa a martellate. La sapienza di Don Raffaele, così dicono si chiamasse il prete, non tardò a concretizzarsi e rivolgendosi a quelle pie anime, il parroco, chiese loro di aiutarlo a placare, se non spegnere, le eretiche fiamme per procedere con la processione. E mentre gli uomini astuti di forza decisero di scendere a valle per cercare acqua a qualche fonte, Michelino, assopito con i compagni tra le rocce, rideva correggiado tirandosi le bretelle. L'avventura dei ragazzi sembrava così tramontare all'epilogo quando, giunti gli uomini da valle e il prete con le acquasantiere, i fuochi furono spenti e la processione, dai volti sporchi di carbone e di fuliggine, proseguì verso il sacrato della chiesa.

Quella sera fecero presto il ritorno a casa. Per le strade non c'era nessuno e man mano che scendeva la notte il buio sembrava annebbiare ogni cosa, tanto da non sapere più contare i passi sul selciato. Si congedarono poco dopo la piazza dandosi appuntamento alla sera dopo, perché al mattino non era possibile dato che, essendo il giorno dell'epifania, i ragazzi dovevano riprendere la scuola dopo la pausa natalizia e Tommasino era impegnato in campagna con il bestiame e con il mosto della recente vendemmia. Solo, sulla strada del ritorno, tormentato da mille pensieri, Tommaso pensava alla casa vuota, al respiro tranquillo di sua madre che riposava sul letto. Avrebbe, infatti, trovato il silenzio di sempre appena aperta la porta di casa e il buio, da lui tanto temuto, sarebbe sobbalzato sino sulla soglia facendogli percepire la solitudine in un solo istante. Appena giunto sotto casa si accorse che qualcosa non andava. Una quiete minacciosa sigillava tra le tenebre l'isolato dell'appartamento, facendo persino traballare la fioca lanterna ad olio che sua madre ebbe accesa poco prima del vespro. Certo, era l'epifania, quindi era normale questo silenzio irreale, questa sorta di buio simile ad una nebbia scura. Per l'epifania sapeva che poteva succedere di tutto, che persino i cani, gli asini, i polli nei canestri potevano parlare, quindi non c'era da stupirsi più di tanto. In cucina ardeva ancora il fuoco, ridotto in brace tra la cenere sparsa, e il riflesso roseo lambiva le pareti grigie dal fumo e le carni del maiale ucciso per Santa Lucia, che appese alle travi del soffitto asciugavano in attesa d'essere conservate. Tutto era rimasto come quando era uscito per andare a casa di Rocco, e nessun angolo della casa sembrava dare un cenno di vita. Adesso, che era notte inoltrata e solo la luna tingeva il paese di un bianco sporco, con sprazzi di luce pallida tra i tetti e le grondaie, tra il selciato e i pianerottoli domestici, neppure le voci di fuori sembravano esserci. L'eterno universo, il cielo e la terra, il fiume a valle, il paese, le strade, gli asini, le persone sembrano tacere, persino il respiro di sua madre si era fatto esile, così pareva, quasi inesistente. L'unico cenno di vita, se di vita si può parlare, era la brace nella bocca del caminetto che stentava a diventare carbone. A Tommasino non restava altro che concedersi al sonno, alle bianche lenzuola che sua madre lavava con l'acqua del fiume o alla fontana appena sotto l'abitato. Ma appena chiuse la porta dietro di sé si accorse che qualcosa era troppo irreale per essere vero. Un sentimento di profonda malinconia, di profonda sofferenza come una pugnalata lo colpì all'improvviso. Ritenne ovvio, allora, affacciarsi alla porta di camera dove dormiva sua madre. Un raggio di luna lambiva il pavimento di tavole e l'orlo dei lenzuoli ricamati, sui quali abbandonata giaceva la mano di donna Matilde. Nella stanza tutto sembrava essere in ordine, persino il letto pareva non essere sgualcito. Allora, un po' per non fare rumore un po' per discrezione, con passi lenti si avvicinò alla madre e subito si ritrasse capendo ciò che era accaduto. Donna Matilde, che sembrava dormisse: era morta. Sul letto non aveva lasciato che il corpo inerme, pallido di chi si è congedato dalla vita. Capì allora che non era un presentimento, ma un sospetto reale, fondato, che adesso lentamente stava sciogliendosi in pianto. No, non poteva essere morta anche lei. Certo, sapeva della malattia, di quel male che dopo la morte del marito, suo padre, la trascinava verso un abisso senza fondo, verso un viaggio senza ritorno, ma non immaginava così presto. Sembrò cadergli il mondo addosso, povero ragazzo. Altro non gli rimaneva che vegliarne il corpo in un silenzio irreale. In paese la notizia si diffuse in poco tempo, anche se era notte, e le donne, le comari di Donna Matilde, compresa la fornaia, che a quell'ora faceva il giro delle case per infornare le clienti del pane, si diresse, disimpegnandosi dalle fatiche, verso casa del ragazzo. Alcuni uomini si preparavano alla veglia che avrebbero dovuto fare dall'esterno dell'appartamento, in strada, intonando le note di Vierno . Ma appena entrarono in camera si accorsero che il corpo di Matilde era stato trafugato e che Tommaso non c'era. Attoniti, si riversarono in strada chiamando il ragazzo che non rispose. Uno dopo l'altro, allora, si dileguarono, donne comprese, per le quintane immaginando l'accaduto. Non era la prima volta che Tommasino giocava brutti scherzi, si vantasse o dicesse cose non vere. Quel ragazzo era da tutti considerato un demone, una creatura di Lucifero che per sventura era nato in paese per portare odio e scompiglio. Ma forse, a ben guardare, non era così.
Tommasino, assieme ai compagni della banda dei fiammiferi, forse grazie al loro aiuto, aveva portato il corpo di sua madre fuori dal paese su una roccia di granito. Matilde giaceva così immobile, come crocifissa con attorno il figlio e i suoi compagni di giochi che, piangenti, intonavano le note di Vierno. Adesso la gente del paese, per non disturbare cosa stava accadendo, si radunava dintorno piangente, con i rosari in mano, in una languida melodia di preghiere. Una scena quasi da presepe, che continuò per tutta la notte sino all'alba quando il prete recitò l'estrema unzione consegnando Matilde al cimitero, facendosi strada, tra tanta gente, sul sentiero innevato.
L'accaduto restò per molto tempo nella memoria dei paesani, soprattutto quello successivo alla crocifissione che, secondo la storia raccontatami, accade durante il tempo della mietitura. In un giorno di fine luglio, in campagna del ragazzo, vicino alla chiesa della Madonna del Massimo, oggi sconsacrata, mentre i marenisi mietevano, tra la calura e il canto delle spigolatrici, in lontananza una donna che sembrava somigliare a Donna Matilde passeggiava sui sentieri che da valle portavano al paese. I braccianti non volevano crederci e neppure Tommasino che, più di altri, aveva riconosciuto in quella donna sua madre. Fu così che incredulo, quasi immobile, pronunciò sillabando il nome della donna che sentendosi chiamare si voltò verso di lui, verso il figlio diventato uomo. Quel giorno, mi hanno raccontato, anche il cielo sembrava non esserci. Quel giorno non tramontò mai in sera.

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