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Andrea Gagliardi, conosciuto tramite un comune amico che si interessa di cinema, mi risponde tramite mail il 25 agosto alle mie molte domande…

D: Cominciamo dai tuoi studi, dalla tua formazione culturale…

R: Non si può dire che io sia nato divorando film come molti altri giovani filmmaker, infatti le mie passioni, in età adolescenziale, vertevano soprattutto sulla letteratura e sul teatro che ho studiato e praticato in età scolastica. Passando per il lavoro di attore ho cominciato ad apprezzare in teatro il compito della regia, e, quando mi sono trovato, terminati gli studi classici, a scegliere quale corso di laurea seguire ho optato verso le discipline del teatro e del cinema, rinunciando agli studi filosofici che pur mi tentavano fortemente. Il cinema mi si è rivelato allora come un intrigante strumento di comunicazione, il più consono ad un certo tipo di discorso che covavo dentro e che desideravo esprimere in qualche maniera.

D: Quali sono stati (se ci sono stati) i suoi modelli, i registi che ha amato di più, che secondo te hanno contribuito a formare il suo stile?

R: Negli anni degli studi formativi ho poi sviluppato una passione molto forte verso il cinema che ho iniziato a conoscere, anche oltre il percorso accademico, attraverso l'opera di registi come David Lynch, Martin Scorsese, Takeshi Kitano, Marco Ferreri, Wim Wenders, Stanley Kubrick, Woody Allen, Michael Hanecke, Richard Linklater, Roger Avary. Se penso alla mia formazione sono questi gli autori che mi vengono in mente e a cui mi sono avvicinato vuoi per interesse intellettuale, vuoi per sensibilità emotiva, o ancora per motivazioni di carattere puramente estetico. Recentemente sono stato piacevolmente colpito da film come Match Point, The Village, Le regole dell'attrazione e Mare Dentro, per il carattere melodrammatico, visionario, o sarcastico di queste opere, che sanno essere profondamente moderne senza per forza rinnegare il passato.

D: Un paio di domande sul tuo cortometraggio "A momentary lapse of reason" (della durata di circa 8 minuti). Innanzitutto il titolo, una citazione del titolo di un noto album dei Pink Floyd (dalla tua filmografia noto che questa non è l'unica citazione dal celebre gruppo progressive)…

R: Ad influenzare lo stile e l'anima dei mie lavori ci sono influenze che, come dicevo, vengono da più parti, ad esempio dalla musica. I Pink Floyd sono stati una delle mie passioni più grandi da ragazzo, e quindi è stato facile citarli , con un pizzico di orgoglio, nei miei piccoli cortometraggi a cui spesso, se si esclude "Non morirò mai…", non riesco a dare un titolo originale.

D: L'impressione che, come spettatore, ho ricavato da "A momentary lapse of reason" è stata si di angoscia, nel seguire la corsa disperata della ragazza protagonista negli ambienti deserti dell'università, ma anche di un profondo mistero, oltre che sulla presenza della ragazza in questo ambiente deserto (e perciò ostile) e sull'identità dell'aggressore.

R: In A momentary lapse of reason ho sperimentato la possibilità di passare dal piano realistico, per quanto angoscioso e sinistro, ad una dimensione altra, quella propria dell'incubo e dell'irrealtà, senza soluzione di continuità, ossia senza esplicitare lo scarto tra questi due mondi e creare distinzioni a mio parere superflue. L'idea è che non esistano distinzioni tra ciò che noi percepiamo come reale e ciò che noi releghiamo nel campo dell'irrealtà della fantasia , dell'incubo, del sovrannaturale. A ben vedere al giorno d'oggi, se ci si avvicina anche solo in modo molto semplice agli studi moderni sulla fisica che proseguono le teorie quantistiche già di per sé rivoluzionarie, si aprono scenari che vanno ben oltre ogni più fervida fantasia, che pongono in discussione il nostro concetto di spazio, di tempo e di materia in maniera talmente estrema da farci perdere ogni certezza fino ad oggi acquisita. Eppure trattasi della realtà secondo la scienza e non di qualche stramba dottrina spiritualista, ed a pensarci bene come definire se non assurda e misteriosa la condizione dell'essere umano sperduto su di un qualsiasi pianeta nell'immensità dell'universo e privato della possibilità di dare una risposta al perché della propria cosciente esistenza? (mi viene da pensare a 2001: odissea nello spazio, il film più importante della storia del cinema) Insomma la vita è mistero, e la vita dell'uomo non può che essere accompagnata dall'angoscia e dall'inquietudine per l'inesplicabile, sentimenti che una persona affetta da ansia cronica e crisi di panico come me non può che provare quotidianamente sulla propria pelle ed eleggere ad assunto teorico delle proprie produzioni in campo artistico.

D: Il finale, mi pare, ha qualcosa di pirandelliano; il cinema che riflette su se stesso…

R: Il finale di A momentary lapse of reason è la logica conseguenza dell'illogicità di una situazione quotidiana che degenera nell'assurdo, e, allo stesso tempo, può rappresentare un momento di riflessione sulle dinamiche relazionali che si instaurano tra fruitore e produttore di un'opera audiovisiva, un circolo che diviene vizioso nel momento in cui l'autore osserva il proprio lavoro attraverso la mediazione critica del pubblico. In "Serafino Gubbio operatore" gli attori temevano il cinema come una macchina infernale che rubava la vitalità cristallizzando le loro performance in forme eternamente uguali ed infinitamente riproducibili, ed è curioso notare quanto il finale di questo corto, con lo sguardo terrorizzato della ragazza di fronte allo schermo che proietta la propria morte, possa in qualche modo riproporre questo tipo di riflessione.

D: Passiamo adesso al tuo recente cortometraggio, più complesso e a mio parere più intrigante; "Non morirò mai…" (della durata di 27 minuti circa). Come è nato questo soggetto?

R: "Non morirò mai.." nasce dalla volontà di realizzare qualcosa di serio, un corto di più vasto respiro che professionalmente potesse preparare, e magari preludere, alla produzione di un lungometraggio. Frequentavo già da alcuni anni il panorama dei cortometraggi nelle varie rassegne e festival del settore, ed avevo notato per lo più, al di là di alcune notevoli eccezioni, il ripetersi di uno schema ormai collaudato, sul modello dello sketch televisivo, che consiste nel breve accenno di una storia che termina sbrigativamente con un finale a sorpresa, piuttosto fine a sé stesso. Avevo insomma considerato la possibilità di lavorare ad un progetto che aprisse invece, anche oltre le evidenti limitazioni temporali del cortometraggio, ad un discorso che potesse contenere più chiavi di lettura e invitare lo spettatore a muovere il cervello ed a concorrere nel dare senso all'opera stessa. Una raccolta di racconti di fantasmi di Edith Wharton mi ha offerto lo spunto per l'ambientazione della storia, ed un racconto in particolare, "Stregato", mi ha turbato per l'ambiguità del finale che non risolveva il caso e lasciava la storia avvolta da un alone di mistero. Il corto si ispira alla vicenda ricalcando taluni personaggi e l'ambientazione della villa ottocentesca nel tentativo di restituire quel sentimento di ansia e turbamento che mi aveva generato il racconto. Inoltre questa storia poteva essere il pretesto per alludere a qualcos'altro, a qualcosa che avesse a che fare con la nostra vita e l'illusione che abbiamo di dominare la realtà e di comprendere l'essenza delle cose.

D: All'inizio del film c'è una citazione da un testo sanscrito…

R: La citazione all'inizio del film è una frase che apre un capitolo del celeberrimo libro di Fritjof Capra, Il Tao della fisica, che affronta in modo strabiliante le coincidenze e le implicazioni delle filosofie orientali nel campo della fisica atomica moderna. Cercavo un incipit deciso che aprisse il cortometraggio e, per analogia, ho trovato adeguata questa citazione che pareva anche sintetizzare l'anelito all'eternità, all'assoluto, che sembra costituire lo spirito di quest'opera.

D: Bellissima l'inquadratura della villa con lo psicologo che fugge mentre viene osservato da due figure in controluce; c'è qualcosa di veramente magico! Come è stata costruita questa scena?

R: L'inquadratura a cui fai riferimento nel finale è quella per la quale ho ricevuto i maggiori apprezzamenti, anche in sede di ripresa da parte degli stessi attori, ed è una delle immagini di cui sono più fiero per una molteplicità di cause, soprattutto perché rappresenta un punto di convergenza tra estetica, espressione di un'idea narrativa e rappresentazione di un concetto trasversale alla storia stessa. Ma è tutta la sequenza, composta da tre semplici inquadrature correlate da precisi e concisi movimenti di macchina concepiti in maniera rigorosa, ad essere a mio avviso sublime (non prestatemi troppa attenzione, sono spudoratamente di parte…). Al di là di tutto, per realizzare una scena come questa devono confluire per il meglio una serie di fattori alcuni dei quali imprevedibili, possibili solo a causa di coincidenze "magiche", ed quindi difficile, se non impossibile, prevederne l'esito a priori. Io penso che il segreto sia realizzare prima un bel lavoro di preparazione, corredato da storyboard o da una precisa scaletta delle inquadrature, e successivamente lasciare aperta "una finestra sul set" in modo da farsi trovare sempre pronti e recettivi agli stimoli anche impensabili che vengono dall'esterno.

D: Quanto tempo hai impiegato per girare "Non morirò mai"?

R: Ci sono voluti sei giorni pieni di riprese per girare questo corto, ma bisogna calcolare che il lavoro di preparazione è durato diversi mesi impiegati a trovare i fondi, la villa, gli attori, preparare le scenografie, per evitare di farsi trovare impreparati in sede di ripresa.

D: E' un peccato, a mio parere, che in Italia raramente si vedano film del genere e che il thriller psicologico sia pochissimo sperimentato; cosa pensi del cinema italiano contemporaneo? C'è qualcosa di interessante da andare a vedere? E volgendosi al passato?

R: Non basterebbero poche righe per offrire un affresco significativo sul cinema italiano di oggi: c'è da dire che è difficile farsi strada con proposte interessanti attraverso i canali ufficiali, mentre i tentativi di alcuni registi di lavorare in digitale ed a basso costo si sono rivelati piuttosto mediocri per la trascuratezza con la quale hanno affrontato taluni aspetti della produzione e la scarsezza di idee davvero originali. In Italia il problema non è relativo alla carenza del thriller psicologico, ma a quella del cinema in generale, se consideriamo che i film prodotti in un anno sono un numero irrilevante e che l'unica possibilità di raccontare storie di finzione sembra essere offerta dalle fiction televisive, anch'esse piuttosto mediocri se non peggio. Dovremo sperare in una utopica rinascita dell'industria italiana, perché solo all'interno di essa è possibile costruire un percorso artistico e produttivo che non sia costituito da sporadici ed isolati episodi da parte di qualche autore. Le opere più interessanti vengono da Sorrentino e Garrone, dei quali ho apprezzato L'uomo in più, Le conseguenze dell'amore e L'imbalsamatore, ma anche, e non me ne vogliano, da Gabriele Muccino con Ricordati di me, checché ne dicano orde di cinefili arrabbiati.
Guardando indietro mi sembra che gli anni '70 abbiano visto, proprio per il prosperare di un'industria guidata da produttori "illuminati", il fiorire di una vasta schiera di autori e di opere variegate che offrivano un programma culturalmente più interessante di quello di oggi; tra questi film io amo molto I Pugni in tasca di Bellocchio, Blow Up di Antonioni, C'era una volta il west di Leone, Dilinger è morto di Ferreri, Il Conformista di Bertolucci.

D: So che sei anche sceneggiatore; puoi parlarci del lavoro di sceneggiatore? Una sceneggiatura può cambiare durante le riprese e il montaggio?

R: La sceneggiatura a mio parere è la fase più delicata ed importante nella realizzazione di un film, perciò io ritengo che sia necessario prendersi del tempo ed essere molto concentrati per poter scrivere qualcosa di significativo. Ho l'impressione che in Italia si ponga poco l'attenzione sull'importanza di studiare la sceneggiatura in maniera analitica, mentre si preferisca considerarla come frutto della mente ispirata di qualche autore geniale. A tal proposito consiglio la visione di un film molto intelligente sull'argomento, Il ladro di orchidee, scritto dal più grande sceneggiatore hollywoodiano del momento, Charlie Kaufman, che è una sorta di autobiografia paranoica e schizzata sul lavoro di sceneggiatore.
Una sceneggiature deve saper cogliere, anche durante le riprese, ciò che il caso può presentare; il bello di lavorare al di fuori di grandi produzioni e degli studi cinematografici, è quello di avere a disposizione una grande ricchezza che è costituita dalla realtà che a volte può essere più fantasiosa della finzione. Ciò che ha reso grandi certi film europei e affascinanti agli occhi di un pubblico come quello americano abituato alle avventure ricostruite negli studi, è la bellezza di certi momenti, certe situazioni, certi personaggi che solo la realtà sempre imprevedibile può regalare al cinema.

D: Che consiglio daresti a chi si affaccia al mondo della fiction?

R: Se devo dare dei consigli invito tutti a prestare molta attenzione alla fase della sceneggiatura che deve richiedere tempo ed essere flessibile, come le ali di un aereo, al vento che soffia quel tanto che basta per non farsi spezzare, e di non cedere alle facili tentazioni di realizzare lavori privi di una struttura narrativa perché, se l'obiettivo è quello di diventare registi, è importante imparare le regole che determinano i meccanismi di fruizione del pubblico cinematografico. Col tempo, acquisendo le competenze specifiche, si riuscirà a sperimentare qualcosa di veramente nuovo ed interessante.

D: Progetti per il prossimo futuro? Magari un lungometraggio?

R: Per adesso mi sto riposando in attesa di sviluppare un paio di idee che dà un po' mi frullano per la testa, una storia di alieni che affliggono un piccolo villaggio nella campagna laziale, e un thriller melodrammatico che racconta una vicenda d'amore e morte. Si tratta di due lungometraggi perché per ora, con i corti, ho veramente chiuso.

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