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Narrativa

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi in prosa inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
Ominidi di Giuseppe C. Budetta, La libertà di Aisha di Tiziano Consani, Lo zio Ted di Emanuele Locatelli, Il tempo smarrito: memorie di un'ottuagenaria di Salvina Pizzuoli, L'Ascensione a Colle di Dunia Sardi

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Giuseppe Bonaccorso, Tiziano Consani, Rossana D'Angelo, Monica Fantaci, Alessandra Ferrari, Emanuela Ferrari, Emanuele Locatelli, Iuri Lombardi, Paola Moreali, Antonio Nesci, Laura Pagura, Michele Parigino, Ivan Pozzoni, Lorenzo Spurio

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Manuela Léa Orita

Recensioni

In questo numero:
- "La nevicata e altri racconti" di Massimo Acciai, recensione di Monica Fantaci
- "Sempre ad est" di Massimo Acciai, recensioni di Liliana Ugolini e Monica Fantaci
- "Un fiorentino a Sappada" di Massimo Acciai, nota di Sandra Carresi
- "La metafora del giardino in letteratura" di Lorenzo Spurio e Massimo Acciai, recensione di Anna Maria Balzano
- "La cucina arancione" di Lorenzo Spurio
- "Flyte & Tallis: Ritorno a Brideshead ed Espiazione, una analisi ravvicinata di due grandi romanzi della letteratura inglese" di Lorenzo Spurio, recensione di Emanuela Ferrari
- "Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici." di Ivan Pozzoni
- "La Poesia di Vasco Rossi. Una interpretazione" di Antonio Malerba, nota di Massimo Acciai
- "Infezione" di Sunshine Faggio, nota di Massimo Acciai
- "Carillon ballerina and the brave tin soldier" di Caterina Pomini, nota di Massimo Acciai
- "Amore latitante" di Fiorella Carcereri, nota di Massimo Acciai
- "Concerto" di Roberto Mosi
- "Non ci sono foto ma qualcosa è rimasto" di Matilde Vittoria Laricchia
- "Vibrazioni cromatiche: dalla favola alla realtà" di Anna Maria Folchini Stabile e Annamaria Stroppiana Calzini
- "Fortuna, il buco delle vite" di Jolanda Buccella, recensione di Isabella da Pozzuoli
- "Gloria" di Tiziano Cosani, nota di Massimo Acciai
- ''L'abisso è alle porte'' di Beda, recensione di Novella Torregiani
- "Alle fonti del Clitumno" di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, recensione di Emanuela Ferrari
- "Interni" di Annalisa Soddu
- "Imago" di Antonella Troisi
- "Io sono soltanto un granello di sabbia" di Anna Scarpetta
- "Raccolta di aforismi" di Emilio Rega, prefazione a cura di Lorenzo Spurio
- "Ian McEwan: sesso e perverzione" dI Lorenzo Spurio

Interviste

Stefano Carlo Vecoli
a cura di Massimo Acciai
Intervista a un poeta impressionista: Cristiano Poletti
a cura di Alessandro Rizzo

Il tempo smarrito: memorie di un'ottuagenaria
 

Salvina Pizzuoli
 

Il tempo dentro di me, il tempo che non si vede
e ci impasta
Mercè Rodoreda La piazza del Diamante

Oggi è il mio compleanno, compio ottant'anni.
Il fastello degli anni, no, non mi angustia; sono traguardi segnalati da una convenzione; dentro mi hanno appena sfiorata. Sono sempre io, mi riconosco.
Ora che c'è più passato che futuro nella mia storia, lo inseguo, lo ripercorro, lo riassaporo, mi fermo a ripassare la mia vita; ma non sono in grado di ripercorrerlo tutto; questo è il mio cruccio.
Sfugge al controllo una lunga parentesi della quale mi restano inspiegabilmente pochi episodi; riemergono con impazienza e stento a riconoscerli come miei, quasi fossero invecchiati precocemente, prima di me.
La mente ritorna sempre più spesso a quel tempo smarrito nelle pieghe della memoria, ma così palpabile; mi turba, con i pochi frammenti rimasti.
Perché?
Il futuro è ormai troppo breve, vicino alle conclusioni e incerto oppure i pezzi mancanti sono davvero così rilevanti?
Non so rispondere; ho vissuto buona parte della mia vita senza averne conservato un ricordo completo; sono riuscita a trattenerne pochi brandelli, sfilacciati e strappati in più punti.
Sono spaventata e affascinata da questo tempo smarrito; preferirei impegnarmi a trascorrere intensamente l'ultimo lasso della storia che mi appartiene più che immaginarne il finale o rimpiangere o rammaricarmi delle stagioni perdute dal ricordo.
Il richiamo del passato è forte e deciso; sento una strana ansia, forse paura, di non riuscire a mettere a fuoco neppure i pochi episodi che la mia mente ha conservato; nessuno può illuminare gli spazi bui di questa ricerca, ma vorrei dare ordine ai pezzi che si presentano senza una precisa scansione temporale; posso provare a ricucirli senza pretese; capire perché riemergono quando meno me lo aspetto e perché mi angustiano tanto.
C'è stato il tempo di vivere e dimenticare e c'è il tempo di rivivere; quale preferire e assecondare? Il dolore o la felicità sono gli stessi, la frustrazione e l'impotenza insopportabili.

La grande casa

Della prima infanzia ho come tutti solo una piccola scorta di episodi, non sempre congruenti ed identici. La memoria me li riporta sconnessi e mi ci perdo dentro confondendoli tra le immagini di vecchie foto o tra brani di conversazione che mi pare di ricordare, tra gesti o sguardi di adulti, sfuggiti e carpiti; ma forse ricordi veri non sono, sono solo fotogrammi che la mia mente ha ottenuto cucendo ritagli di vissuto con i racconti di mia madre, non sempre disponibile a rinverdire il passato, o con le sue scarne risposte alle domande che insistentemente le rivolgevo.
So con certezza di essere nata il 21 ottobre del 1929, di lunedì che, come ripeteva sempre mia madre, era una giornata fortunata perché al paese era giorno di fiera. Nei suoi racconti, snocciolati alla buona dietro mia insistenza, il parto assumeva i contorni di una favola lieta: tra una doglia e l'altra mangiava le mandorle sgusciate che teneva in tasca, incurante dell'affaccendarsi delle altre donne, quelle esperte di parti, quelle che avevano già partorito tanti figli. Nacqui nella grande casa. Non ero particolarmente graziosa né bella, ricordava mia madre, anzi, insisteva che per la mia magrezza aveva in un primo momento avuto l'impressione di aver partorito un coniglio, di quelli scuoiati che lei vedeva spesso penzolare inerti nella zona adibita al macello. Avevo anche una grande bocca che le donne curarono prontamente con delicati, ma costanti sfregamenti di spicchi di limone, quelli nostrani e abbondanti nel giardino del nonno e naturalmente astringenti, come tutti ben sapevano già allora.
Poteva bastare essere nati in un giorno di fiera per sfatare il momento storico? In realtà nel mondo qualche giorno dopo sarebbe crollata la borsa di Wall Street, gli italiani vivevano ormai in pieno e conclamato regime fascista e la Sicilia esportava già mafiosi sulle navi dirette in America mentre il sicilianismo si poneva a baluardo dell'immobilismo storico dell'isola e la collusione tra potere politico e mafia continuava, indisturbato; questo solo per accennare ad alcuni tra gli avvenimenti che sembravano non deporre, come al contrario sosteneva mia madre, a favore di una nascita fortunata. Ma ero troppo piccola per capire e troppo indaffarata immagino a prendere le distanze in quel nuovo mondo in cui mi muovevo come una cieca.
Dei primi dieci anni di vita conservo prevalentemente ricordi di importazione, a me sembrano tali, ma in realtà sono sostenuti dalle immagini che i racconti di mia madre hanno contribuito a ricostruire. Altri, pochi, spiccano e sono così vividi che mi pare di esserci.
Una bimbetta con il volto paffuto e due grandi occhi castani, ritrosi e perduti ad indagare il mondo fuori con guardinga apprensione, quasi a prevenire una qualsivoglia richiesta sgradita. Il mio mondo era la grande casa, gli animali da cortile, quelli domestici, gli uomini e le donne che mi circondavano, i piccoli con i quali giocavo. Il pergolato, i campi coltivati a grano, l'orto, i recinti per gli animali erano il mondo intorno alla grande casa dove mi sentivo protetta.
La grande casa stagliata sul fianco della collina, con la sua struttura rettangolare, massiccia, con la facciata di pietre e i muretti che delimitano e sostengono la grande terrazza che la circonda da due lati. I ricordi sono enfatici; la terrazza è fantasmagoria di colori, profumi e frutti: il pergolato le fa da tetto, ora gravido di grappoli neri, ora di foglie rugginose, ora di nodose e scarne ramosità; il profumo sensuale ed intenso dalla siepe di gelsomino vi si mescola e si confonde con quello più acuto dei fiori di zagara.
Ci si arriva percorrendo una stradicciola bianca, segnata dalle ruote dei carretti e racchiusa tra i muretti a secco che delimitano i campi. Dal muro sul lato destro della strada, per un cancello di legno, si accede ad un ampio giardino distinto in due dal viottolo che dal cancello conduce alla terrazza e alle stanze del piano terreno. Nel giardino o per meglio dire il frutteto, melograni, meli, susini, mentre un grosso gelso occupa buona parte del margine più a sinistra. Lungo il muro i fichi d'india con le loro pale spinose, carichi di frutti che solo il nonno può cogliere, con la sua canna speciale, quella che termina con una V. La sua maestria è notevole, con un solo colpo sa staccare il frutto dalla pala e sistemarlo nel grande cesto in cui li raccoglie. Gli alberi da frutto sono gioia golosa per noi ragazzi; quando sono carichi diventiamo solidali e veloci come furetti, li strappiamo a piene mani, forse perché frutti proibiti; il nonno infatti ci sgrida e punisce pesantemente, ma il richiamo è troppo forte e ci fa superare ogni paura.
Addossata sul margine sinistro, quasi sotto il maestoso gelso, corre la struttura di legno che accoglie il pollaio. A sinistra l'aia, di fronte la stalla e accanto i locali per il macello; solo i grandi, per volere del nonno, hanno accesso a quella parte. I piccoli sono dissuasi con racconti terribili di maiali che mangiano neonati incustoditi o rincorrono i bambini; durante la macellazione degli animali da cortile e in inverno del maiale, i piccoli sono allontanati. Ho sempre apprezzato da adulta questo divieto del nonno che rivelava una particolare sensibilità nei confronti dei più giovani; forse un ricordo di bambino lo aveva condotto a questa decisione. Rammento infatti con strazio i lamenti protratti del maiale mentre veniva ucciso, suoni che mi giungevano lontani, ma chiari e distinti; riempivano l'aria e lasciavano tutti muti.
Una grande vasca e una panca di muratura contornano il quadrato davanti alla stalla. A sinistra il locale con il forno a legna in cui la nonna e le donne della grande casa fanno il pane. Quella del pane, dei biscotti, i famosi firringozza della nonna, e delle schiacce farcite è uno dei ricordi più vividi ed indelebili nella mia memoria di bambina.
La giornata dedicata a questa importante attività era cerimonia specialissima. Iniziava nel buio, nel buio terminava. Io volevo sempre assistere a tutto il processo, dalla preparazione del forno, a quella dell'impasto fino all'infornata e quindi alla cottura.
La preparazione del forno è lunga e faticosa: si introducono le fascine che vengono sistemate all'interno della bocca in modo che non soffochino la fiamma, ma, alla giusta distanza, prendano via via fuoco e ardano in modo da far arroventare bene la cavità. Avvicinarsi alla bocca in quei momenti significa essere afferrati dal calore che il fuoco ha sviluppato, sentirsi avvampare, ma occorre resistere per capire se l'opera di riscaldamento è corretta.
Il caldo è soffocante nella stanza del forno; le donne sono affaticate e affumicate; insieme al pane non mancano i biscotti e le bambole di pasta, molto simili alle altre, quelle di pezza: una stoffa doppia arrotolata su se stessa e quindi rigirata a chiudere e fermare il rotolo informe, ma l'immaginazione lo trasforma in lunghi capelli, in mantelli caldi e avvolgenti; a quelle di pasta la nonna disegna gli occhi e la bocca, ma entrambe sono molto rudimentali nelle loro fragili strutture; i pezzi delle bambole di pasta però sono buoni da mangiare, soprattutto ancora caldi.
Il tavolo per impastare bianco di farina, in alcuni punti solo spruzzato, in altri completamente ricoperto; mani veloci che piegano l'impasto gravandolo con il peso del palmo accompagnandolo con la flessione della spalla e del gomito; i volti accaldati, le mani impastate, i grembiuli bianchi di bianco; lo sguardo affettuoso della piccola donna energica e amorosa che è mia nonna; le pagnottelle piccole, tonde, ben incise al centro.
La nonna confezionava un solo tipo di pane, quello che posso definire comune; non aggiungeva nulla all'impasto di base, eppure il sapore era notevole, la fetta robusta e morbida allo stesso tempo, la crosta compatta e, sebbene non croccante, gradevole nella sua consistenza. Nessuno la batteva nelle schiacciate rustiche, quelle ripiene di verdura. Il suo capolavoro era certamente quella con l'interno di patate e cipolle rosolate insieme. Capolavori anche di estetica: tonde, con un riccetto che la nonna confeziona alternando veloce il pollice e l'indice sul bordo esterno della schiacciata, in modo da sigillare i due dischi di pasta sovrapposti. Nelle narici ancora quel profumo e in bocca il sapore di quel pane, dei biscotti, più uova che farina, e delle schiacce farcite; sapori inseguiti, mai dimenticati e mai più ritrovati.
A destra, rispetto ai locali del forno, i locali dell'abitazione vera e propria cui si accedeva da varie parti oltre che dal frutteto: un vero e proprio labirinto del quale occorreva conoscere bene tutti gli accessi e le vie di fuga per non perdersi; comunque la casa era tutta aperta verso l'esterno con il suo unico piano; i piani superiori accoglievano infatti terrazze coperte e ampi solai di legno per l'essiccazione dei prodotti e grandi stanze per il deposito delle granaglie ad uso domestico.
Grandi tavole ricolme di pomodori a seccare al sole, frutta e carrubbe, dolci e tenere da sgranocchiare e succhiare. Il primo ed unico piano è una sequela di stanze una dentro l'altra e di seguito all'altra senza corridoi divisori o con spazi organizzati e separati. Il locale più ampio è la grande stanza dove la famiglia si riunisce la sera per il pasto collettivo; adiacente la cucina, con il fornello a carbone da una parte ed un largo camino dall'altra. Sulle travi del soffitto tante leccornie appese in attesa delle feste o di ospiti per essere consumate; soprattutto le provole, pendono per la parte stretta, a funcia; a me piace particolarmente perché più saporita; me ne tocca sempre un pezzetto quando viene avviata. Tutto intorno alla cucina e alla grande stanza si inseguono le camere, una dopo l'altra; si va a dormire presto e d'inverno per scaldare il letto si sistema u parrinu, la strana struttura a campana che sostiene lo scaldino. D'estate ci si sposta fuori, sotto il pergolato, nella terrazza grande che si apre davanti alla porta principale.
È lì che il cielo per la prima volta da bambina mi è venuto incontro con il suo bel manto nerazzurro pieno di punti luminosissimi e una luna gigante, biancolatte. Non era possibile non guardare il cielo non solo perché occupava una buona porzione del paesaggio davanti a noi, ma anche perché era lui che ci guardava con il suo terso e intenso chiarore soprattutto quando la luna, bianca presenza delle notti d'estate, illuminava, spegneva, camuffava tratti di firmamento e accanto e sotto di lei, la sua malia non permetteva di pensare ad altro.
Dalla cucina si accede al pozzo, al lavatoio, alla latrina o per meglio dire al buco che un coperchio come un tappo chiude, ma occorre uscire all'esterno; la copertura di questi locali non è in muratura, ma di legno e d'inverno ci fa un gran freddo. Nei recipienti l'acqua gela e bisogna spaccarla prima di lavarsi il viso e le mani; ci vuole grande coraggio. Adiacente è l'orto con le erbe per profumare, condire, curare; la salvia che la nonna raccomanda sempre di strusciare sui denti e sulle gengive, l'alloro e la menta per lenire il mal di pancia, le mandorle e il loro latticello che la nonna ottiene pestandole sgusciate e mondate in un pestello di colore dorato e altri alberi da frutta. Il grande ciliegio sul quale mi arrampico e dal quale sono caduta varie volte sbucciandomi e rischiando notevoli ammaccature. Non è bello come il gelso dentro il quale puoi quasi nasconderti, ma è alto e si domina tutto l'orto. Avevo paura nell'orto, forse per i divieti del nonno o per i racconti che i grandi si divertivano a fare per spaventare i piccini. Dopo la guerra lo associavo alle corse verso il rifugio, il basso pertugio nel quale dovevo infilarmi prima che la grotta si aprisse in una volta più ampia.
Non allontanarsi troppo dalla casa era dovuto ad una mia naturale inclinazione alla casalinghitudine che, anche dopo, avrebbe costituito una mia precipua caratteristica, ma soprattutto obbedivo ciecamente a precise richieste sottolineate da racconti raccapriccianti di lupi mannari e uomini cattivi che gli adulti non mi lesinavano. Crescevo in quella parte orientale dell'isola che aveva conosciuto un notevole sviluppo agricolo e che era all'avanguardia per le tecniche di produzione e di coltivazione e dove, negli anni immediatamente precedenti, la nascita di un fascismo rurale aveva dato vita a manifestazioni squadriste ed a scontri con i gruppi di opposta convinzione politica. L'affermazione del fascismo in quest'area si legava anche ai contrasti, acuiti dopo la prima guerra, tra la grande massa dei braccianti e la piccola proprietà terriera che aveva risposto alle richieste con aggressioni e violenze vive ancora nelle menti e negli animi di chi ne aveva magari sentito solo parlare; le paure vissute si intrecciavano con i racconti dei massacri compiuti nelle campagne sempre negli anni intorno al 1920 dalle forze dell'ordine per reprimere i movimenti contadini e la richiesta di terre; troppi morti a Catania, a Gela, a Comiso, a Ragusa. Ammazzati o costretti a dimettersi o confinati gli amministratori socialisti dei comuni limitrofi in seguito agli atti di violenza delle squadre fasciste. Ma ancora più vicini erano i rastrellamenti di Gangi, paese madonita, contro i clan mafiosi ad opera del prefetto Mori, ma alla gente pacifica facevano comunque paura: i mafiosi veri se la cavavano, i pesci piccoli cascavano nella rete e i proprietari terrieri si liberavano di gabellotti troppo sfrontati, e non cambiava nulla.
Restava la paura, stratificata, profonda; quella che non necessariamente nasce dall'essere direttamente coinvolti in un'esperienza mafiosa; come una malattia endemica, basta un niente perché esploda in tutta la sua virulenza: è questa paura che ogni siciliano si portava e si porta ancora dentro.
Latifondo e mafia; i mali della Sicilia; piaghe nate dalla dissoluzione della grande proprietà feudale e dalla mancanza di una precisa autorità che definisse i nuovi diritti di proprietà: la mafia, feroce forza intermedia tra il proprietario e il contadino, garantiva con i gabellotti e i campieri manovalanza a basso costo e l'asservimento dei contadini al proprietario che comunque doveva sottostare al ricatto della malavita. Questa forza garantista di un equilibrio imposto, era stata l'unica in grado di gestire il vuoto di potere che poi con la prima guerra si sarebbe riaperto e ancora una volta perpetuato. Lo stesso Mussolini si era appoggiato alla mafia per trionfare in Sicilia alle amministrative del '25, anche se successivamente sembrò volersi liberare di quelle collaborazioni illegali, anche perché aveva ormai il pieno favore dei grandi proprietari terrieri, grazie alle nuove norme che non li limitavano e nell'elevare i canoni d'affitto e nel liberarsi dei mezzadri; la mafia non aveva quindi più motivo di esistere e poteva essere combattuta sul campo; era arrivato così l'uomo di ferro che avrebbe dovuto debellare il male alle radici: il prefetto Mori. Ma quando la sua opera si volse contro i pezzi da novanta, quelli che appartenevano non solo alle classi sociali più elevate, ma che svolgevano i loro traffici sotto coperture legali, il prefetto fu sgradito e presto esautorato. Intanto, durante la grande paura, i grossi mafiosi si erano iscritti al partito fascista o erano emigrati in America da dove loro o i loro figli sarebbero tornati in appoggio alle truppe di liberazione.
Il latifondo e la fame di terra dei contadini siciliani non sono stati gli unici mali senza soluzione, ad essi si sono accompagnate le conseguenze delle esperienze che nel tempo e da tempo la gente pacifica aveva subito; ricordo la frase di Cattaneo che studiando in seguito il fenomeno mi avrebbe colpita e convinta, perché affermava che dar la terra senza i capitali necessari a farla rendere era come dare le bottiglie e non il vino per riempirle. Mancanza quindi di infrastrutture e non solo; un altro male contro il quale occorreva combattere era soprattutto la diffidenza. Don Sturzo aveva indicato chiaramente nella mancanza di spirito di associazione e di solidarietà e nella sfiducia totale, insieme alla paura costante di essere ingannati e sopraffatti, le difficoltà del mondo contadino: occorreva emanciparsi dalla figura del gabellotto, l'intermediario che subaffittava piccoli appezzamenti dal latifondo che fomentava la diffidenza e la paura. Tutti tentativi vani sin dalla creazione delle affittanze collettive e dalla nascita delle casse rurali alla fine dell'Ottocento, se ancora nel 1940, la legge Tassinari, cercava di modificare i vecchi rapporti e se ancora nel 1941, Lucio Tasca, il futuro sindaco di Palermo dopo lo sbarco alleato, gradito agli ambienti mafiosi e separatisti, poteva permettersi di scrivere l'Elogio del latifondo siciliano, dove dimostrava i vantaggi dell'economia latifondista per il clima e la struttura morfologica siciliana e dove gabellotti e campieri erano figure efficaci della classe media e non figure che nel latifondo regnavano indisturbate alle spalle dei contadini ed anche dei padroni.
Il potere malato, una piaga che non sarebbe mai stata risolta in modo indolore perché la mafia aveva compreso che le masse più povere e senza una coscienza politica erano manovrabili e ricattabili non solo come lavoratori, ma anche come elettori.
Ma io tutto questo non lo sapevo e non avrei comunque potuto capirlo; l'ho studiato da grande, inseguendo un desiderio, all'inizio incompreso, di riacciuffare quelle radici che i fatti futuri avrebbero sradicato definitivamente, ma soprattutto per cercare di capire alcune drastiche decisioni prese da mio padre; da bambina sentivo solo l'apprensione degli adulti nelle frasi che forse non erano rivolte solo a me, ma erano forme esorcistiche contro quella paura stratificata che si portavano addosso. Morti ammazzati, persecuzioni, movimenti moralizzatori ed epurativi nei confronti di quella manovalanza troppo collusa con la criminalità non erano serviti a nulla, non era mutato nulla.
La vita nella grande casa sembrava risentire senza grossi scossoni dei movimenti che dal continente erano calati in Sicilia e dove cercavano di prendere il controllo della vita politica; il nonno, il nostro capo famiglia, era un piccolo proprietario che gestiva le proprietà direttamente insieme con gli altri membri della famiglia, allargata alle nuore, i generi e i nipoti. Era fascista, mi raccontava la mamma, fanatico di Mussolini più che del PNF e dei suoi principi. Mi sono chiesta a lungo e varie volte perché il nonno lo fosse diventato e da grande me ne sono vergognata. Come nipote conservo di lui l'immagine di un signore alto, elegante, con grandi occhi chiari, ereditati solo da Giovanni e dai suoi figli quasi un passaporto per il nord dove si sarebbero stabiliti; era cordiale e conviviale, padrone e signore, figlio di una nobiltà decaduta e impoverita per debiti e per cattiva conduzione delle sostanze, ma conservata nei modi e nel comportamento. Era forse questo il riscatto che credeva di ottenere con l'appartenenza al fascio? Riconquistare un ruolo che la sua famiglia aveva perso? Dopo i rossori della giovinezza avevo smesso di pormi questa domanda e mi consolavo confrontando la sua scelta con quella di altri, anche scrittori di spessore, Vittorini, Pirandello, Brancati, siciliani che avevano aderito il fascismo. È anche vero che in Sicilia il movimento fascista assumeva delle caratteristiche che posso definire sue proprie, almeno per quanto riguarda quello della prima ora. Troppe connotazioni vi erano confluite, da quella nazionalista, più accreditata in Sicilia del fascismo medesimo, a quella patriottico-risorgimentale e non per ultima quella di riscatto delle masse lavoratrici e quindi di lotta strenua alla mafia. Ma è anche vero, come ebbe a scrivere Sciascia, che la Sicilia era già fascista in quanto era già mafiosa e perché la mafia, come il fascismo, era appunto anche altre cose. Anche il padre di mio padre era fascista. Non era un proprietario, ma un ferroviere. Nelle trasferte saliva spesso al paese e veniva in campagna a trovare il nonno; allora le candele restavano a lungo accese nella notte a rischiarare tremolanti i loro interminabili e caldi confronti politici mentre scaldavano il corpo con sorsate generose del vino forte che il nonno produceva dalle sue vigne per uso familiare. Ma lo scorrere delle stagioni nella grande casa così ben scandite da tutte le operazioni che la terra richiedeva per dare i suoi frutti, ovattava con il costante succedersi gli echi del mondo; la famiglia era infatti concentrata a lottare contro le imprevedibili risposte della natura ai tentativi di piegarla ai desideri degli umani, a far quadrare i conti oberati da sempre nuove gabelle, a convivere con la vita quotidiana. Ma io ignoravo buona parte di questi travagli che a volte intuivo nelle tensioni familiari; ero felice tra tutti quegli umani che mi vivevano accanto e che rappresentavano ciascuno a suo modo tanti mio padre e tante mia madre, in un ruolo indistinto dove era evidente la preponderanza di quello maschile comunque affiancato dal fondamentale apporto femminile nella conduzione della casa di tutti. Il primo grande scossone nella mia felice esistenza arrivò per me improvviso e inaspettato; il mondo esterno era entrato prepotentemente nella vita della grande casa. Avevo sentito parlare di guerra, dagli adulti, dai giochi dei piccoli, avevo visto armi, fucili soprattutto, ma era un fenomeno lontano e incompreso. Sparare, morire. Ma la mia mente rifiutava la sequenza anche se l'avevo vista con i miei occhi e preferivo immaginare che poi ci si rialzasse e si ricominciasse da capo. Nel 1935 una guerra lontana aveva scosso le fondamenta su cui poggiava per me la famiglia della grande casa. Era inverno, lo ricordo perché faceva freddo e minacciava neve. Ma forse non era questo il motivo per cui quell'episodio è stampato nella mia memoria di bambina. La nonna è inginocchiata accanto al lettone, la testa china, le mani rovistano in una vecchia cassetta che sporge appena tra le assi di legno su cui si appoggiano i materassi; il nonno è accanto a lei in piedi; la sua posizione mi sfugge, è innaturale; è leggermente inclinata in avanti con il braccio destro che termina con qualcosa che sfiora la testa della nonna. Non mi vedono, sono intenti ciascuno al proprio compito. La nonna intanto sta infilando lentamente e senza parole dentro una calza di lana degli oggetti che vedo per la prima volta: due anelli, un braccialetto, una collana, due orecchini. Li guarda attentamente prima di infilarli nella calza, quasi un ultimo sguardo, un addio. Sento a distanza la tensione e il suo dolore; sembra non volersi separare da quegli oggetti; sono sicuramente cari ricordi. Passa la calza appesantita al nonno che la prende con la mano libera e quindi a gesti della stessa mano la esorta ad alzarsi. Nessuna parola tra i due. Solo ora vedo chiaramente che il nonno stringe una pistola nella mano destra; era l'oggetto con cui sfiorava la testa della nonna. Devo allontanarmi; non devono vedermi. Trovo la forza di muovermi; le gambe sono pesanti e gli occhi guardano e sfuggono la scena nella paura di essere vista. Non mi è chiaro nulla di quello che sta succedendo, avverto solo animalescamente che c' è un pericolo che la nonna ha corso e che anch'io sto correndo. Tintu, malu cristianu; parole amare salgono alla mia bocca; si strozzano in gola insieme alle lacrime che non vogliono uscire dagli occhi. Il nonno era dunque un cattivo. Voleva quegli oggetti cui la nonna teneva, e ad ogni costo. Ero abituata a saperlo severo, ma non era la stessa cosa: trovavo giusta la sua durezza e le punizioni che infliggeva ai piccoli se non rispettavano le regole, ma sapeva essere anche dolce, paziente e giocherellone. Non assomigliava proprio a quello che mi faceva cavalluccio sulle ginocchia: canta una strana filastrocca di latte e formaggio, e mi sorride rassicurante ad ogni sussulto delle sue forti gambe; caracollo e rido felice. Non era lo stesso che dopo la pioggia mi portava a cercare le lumache, il mio piatto preferito: mi guida sapientemente e amorosamente durante la loro ricerca, illumina con la lanterna gli spazi bui; mi ripara sotto la manta parapioggia; sa quanto mi piacciono le lumache che la nonna cucina così bene dopo averle fatte spurgare. E i piccoli curiosoni, hanno ancora una volta lasciato sboccato il coperchio del grosso tegame che le tiene prigioniere per tutta una notte prima di essere cucinate; al mattino la sorpresa tra sconforto e ilarità: le lumache si sono disperse per tutta la cucina e anche sui muri; riacchiapparle non è stato facile, ma sicuramente divertente e quella ghiottoneria ha soddisfatto più palati.
Non sono più riuscita a mangiare le lumache lontano dalla Sicilia.
Pochi giorni dopo gli stessi oggetti, riposti in una scatola, erano pronti per essere consegnati durante la cerimonia che si sarebbe svolta in paese. Tutte le donne erano state chiamate a sostenere lo sforzo della patria a fronteggiare le sanzioni in cui il regime era incorso con l'attacco all'Etiopia. La nonna non aveva risposto volontariamente all'appello del Duce, anzi, era molto contrariata, come ebbe a dirmi mia madre interrogata da me su quell'avvenimento a lungo taciuto; seppi poi che era comunque riuscita a nascondere gli ori più belli o comunque per lei più importanti e conservarli per noi; gliene avrebbe fatto dono poi, come ricordo, alla nostra definitiva partenza.
Se quello fu un avvenimento traumatico, la guerra lo fu di più. Da noi ne arrivò in un primo momento solo l'eco, ma lo stravolgimento che produsse nella grande casa fu sconvolgente. I maschi giovani partirono tutti, anche mio padre. E fui orfana immediatamente di tutte le mie figure paterne. Poi arrivarono i lavori pesanti per le donne, i loro dolori nel non ricevere notizie o nel riceverne di cattive e luttuose, i bombardamenti e le corse verso il rifugio per evitare le incursioni preavvisate dagli ormai chiari segnali degli animali domestici.
Maruzza si mette prima le zampe sulle orecchie e dopo comincia a guaiolare appiattendosi per terra quasi a volersi rendere invisibile. Le galline si ritirano come se fosse notte e smettono per giorni di fare le uova. Nitriti e belati, scalpiccii di zoccoli, furie per liberarsi dai lacci. Corse verso il rifugio, là, in fondo all'orto attraversato in fretta saltando i cespugli; battiti nelle tempie, aria fredda nelle narici, dolore alla gola.
In quel periodo non ricordo di aver patito la fame o di avere memoria di pasti poveri anche se Vittorio, il più piccolo, reclamava il pane bianco e piangeva e inveiva contro la guerra che lo costringeva a mangiare pani tintu , il pane nero per lui tanto cattivo. I ricordi di scuola si mescolano con il suono delle sirene degli allarmi, con il lungo grembiule nero e i colletti bianchi, abbagliante ricordo delle compagne di classe senza testa e senza un volto. Frequentavo la scuola media come mio padre aveva voluto perché poi mi diplomassi; non voleva che facessi come lui che, a causa di una bocciatura, aveva dovuto rinunciare al diploma, ad un anno dalla conclusione. Suo padre infatti lo aveva punito mandandolo a lavorare perchè i scecchi a travagghiari . Mi ripeteva che anche se fossi stata bocciata lui mi avrebbe costretta a prendere comunque il diploma. Ma ricordo che ero ritenuta brava anche se non ne ho una memoria dettagliata; mi piaceva la storia e leggere. Forse è per questo che i fatti sono spesso confusi e combinati con scene irreali o che mi appaiono tali nella memoria nebulosa e imprecisa. Leggevo forse per fuggire da quell'incubo che ero costretta a vivere a partire dal 1942 e per tutto il 1943, per la guerra e per la vicinanza all'aeroporto militare di Comiso, importante base dell'Asse. Ricordo perfettamente il sibilo e poi l'assordante frastuono delle bombe nell'impatto con il terreno e poi il fumo e la polvere e l'odore che riempivano l'aria anche per giorni.
Ma poi arrivarono gli alleati sulle loro camionette. Le feste e le acclamazioni serpeggiavano festose e riscaldavano il cuore nell'euforia generale che dimenticava le distruzioni, le sofferenze e la morte, per un attimo. La vita continuava nel grido che i compaesani rivolgevano ormai abitualmente al passaggio di ciascuna camionetta, lo ricordo come fosse ora, tanto ancora vive nelle mie orecchie lo stimp stamp buattaim, incredibili parole senza senso o solo suoni improbabili, un ritornello incongruo che gesti inequivocabili accompagnano; le mani insieme mimano la forma di una scatola rotonda; le dita congiunte della mano destra si muovono poi verso la bocca aperta mentre la voce ripete suoni insignificanti di una lingua sconosciuta ma che acquistano significato nel gesto.
Cioccolata e buatte concesse generosamente dai soldati accompagnate con un sorriso; trattenuta tra i denti spicca morbida e appiccicosa la gomma che masticavano continuamente; tutto è ancora impresso nelle immagini della mia memoria di adolescente.
In realtà ero ormai abbastanza grande per ricordare, ma la mia facoltà di ricordare era come quella di un bambino piccolo. Vivevo, ma era come non esserci; continuo era lo scollegamento tra il corpo e la mente. Anche lo sbocciare della mia sessualità era passato completamente senza lasciare traccia se non quella evidente di emorragie intermittenti. Il terrore, lo sgomento, il dolore avevano sostituito la dolcezza, la serenità nel mio mondo; nella grande casa niente era più come prima. Ma non avevo ancora subito il colpo ferale che mi avrebbe segnata, senza esserne cosciente, per buona parte della mia esistenza. Anche se la guerra era finita nella grande casa niente era più come prima. Alcuni degli uomini partiti non erano ancora tornati perché prigionieri o dispersi; altri non avrebbero più fatto ritorno. Altri sebbene fossero tornati, come mio padre, erano cambiati non solo nel fisico. Era magro e non parlava volentieri né di guerra né d'altro. Lavorava svogliatamente, ma nessuno doveva disturbarlo quando ascoltava i notiziari alla radio di cui aveva montato personalmente l'antenna come aveva imparato a fare, diceva, durante la guerra. Cosa lo interessava lo avrei capito solo molto tempo dopo.
Dopo lo sbarco e l'amministrazione militare alleata la Sicilia affrontava ancora una volta il triste problema della mafia che si avviava a prendere direttamente il potere politico-amministrativo dell'isola. Queste cose io le compresi molto dopo; al tempo mi sfuggivano i malumori di mio padre che oltre ad essere diventato durante la guerra un convinto antifascista, sempre che fascista lo fosse mai stato, ma non lo diceva, era sgomentato da quanto si stava apparecchiando per il tempo futuro. Penso proprio che fosse stata questa la ragione dei suoi silenzi e che proprio in quel periodo stesse facendosi strada la volontà di abbandonare la sua terra. Con lo sbarco una nuova pagina di morti, lotte sociali e guerre civili si abbattè sulla Sicilia. Il controllo amministrativo e militare sul territorio era esercitato dalle due potenze occupanti, ognuna nella rispettiva zona di competenza: agli inglesi la Sicilia orientale, agli americani la parte occidentale dell'isola. Il quartier generale dell'amgot, sigla con la quale era designato il centro di comando dell'esercito alleato, fu stabilito dapprima a Siracusa e poi a Palermo. Gli ufficiali ebbero il compito di sostituire i podestà e gli altri funzionari locali con nuovi sindaci e collaboratori, scelti tra le personalità più in vista: i servizi segreti alleati fornirono una lista di nomi degli uomini più importanti della Sicilia, nella maggior parte aristocratici. Non sempre gli ufficiali si rivelarono attenti e all'altezza del compito loro affidato tanto che alcuni di loro subirono influenze negative nella scelta degli amministratori; così accadde che in alcuni comuni sostituirono i podestà con i mafiosi locali perché fuorviati dalle informazioni della popolazione o dai suggerimenti di certi gregari della mafia, interpreti o uomini di fiducia del governo militare. Avvenne insomma quello che la mafia aveva da sempre sperato: molti mafiosi divennero sindaci e la mafia passò ad amministrare direttamente, come mai prima, più della metà dei comuni siciliani; come Calogero Vizzini, Don Calò, un pezzo da novantanove, capo supremo della mafia siciliana per trentatre anni. Era stato allontanato dalla Sicilia dal prefetto Mori, ma divenne sindaco di Villalba per volere proprio dell'amgot.
Ciò diede nuova e solida autorità ai mafiosi; la mafia contribuì quindi alla nascita del Movimento Indipendentista Siciliano, il Mis, composto non solo da malavitosi, anche se la componente era molto importante. Il Movimento avrebbe avuto un peso politico non indifferente e organizzò persino un suo esercito, l'Evis, l'Esercito volontario di indipendenza siciliana, nel quale militarono banditi e mafiosi di grosso calibro e con a capo Salvatore Giuliano. E ancora morti ammazzati, rivolte, fatti eclatanti, come quello che ebbe come protagonista una donna, Maria Occhipinti, che aveva capeggiato la rivolta nel gennaio del '45; con un gesto rivoluzionario, si sdraiò davanti al camion con i nuovi richiamati alle armi, femmina e incinta, guidando la sommossa partita dal quartiere a Russia di Ragusa, il quartiere dei rossi dove la Occhipinti era nata. Basta guerra e basta fame; tutti erano insorti e molti giovani per sfuggire ai rastrellamenti si erano nascosti nelle campagne. Tra il 1944-e il 45 la richiesta agli agricoltori di ulteriori 25 kg di grano e la chiamata alle armi dei giovani del 1922, ma anche del '23 e '24 avevano esasperato la popolazione ormai disperata e affamata.
E i soldati sparano, ammazzano, feriscono. E poi, dopo giorni di scontri, tutto si quieta, la rivolta è sedata, ma molti ragusani vengono incarcerati o abbandonano la città. La Occhipinti arrestata. E in Sicilia non cambia nulla, mentre la versione ufficiale leggerà gli avvenimenti come rigurgito fascista e tentativo separatista. Nemmeno con la morte dello stesso Giuliano e anni dopo del suo sicario, Gaspare Pisciotta. Ma di questa morte mio padre avrebbe avuto notizia nel continente, lontano dalla sua terra. Io invece, allora indaffarata a seguire i miei nuovi percorsi per impossessarmi della storia e della vita di una città che non mi apparteneva, lessi della morte di Giuliano nell'articolo di Tommaso Besozzi comparso sull'Europeo pochi giorni dopo, con il quale il giornalista smantellava la versione ufficiale della morte del bandito, e mi confermava la corretta lettura che mio padre aveva subito dato dell'avvenimento: normalmente restio a fornire la sua opinione o a parlare di politica in famiglia, da subito non dette credito alla versione che su tutti i notiziari veniva sbandierata come il risultato di una trappola tesa dalle forze dell'ordine; ricordo benissimo la faccia torva con la quale ascoltava il notiziario; ebbe subito a dire, quasi parlando a se stesso, che quella era una faccenda di mafia. Probabilmente in tutta la Sicilia la versione ufficiale non fece mai convinto nessuno. Chi vive di mafia, sa riconoscere le sue azioni.
Il caso Giuliano, che studiai anni dopo anche attraverso gli articoli di Besozzi , dimostrava come la mafia gestisse il suo potere sulle terre: quando nel secondo dopoguerra le terre furono occupate e si cominciò ancora a parlare di riforma agraria, né i baroni, né i membri delle cooperative sorte sulle terre occupate erano disposti a pagare la protezione della malavita. Fu allora che la mafia giocò la carta degli uomini della montagna, i banditi, quelli che dovevano ripristinare il dominio della paura, protetti dall'organizzazione. In seguito fu sempre Don Calogero Vizzini, il pezzo da novantanove e sindaco di Villalba, a decidere la fine di Giuliano, quando la ricerca del bandito aveva richiamato troppe forze dell'ordine che ostacolavano le imprese criminose. Povera Sicilia, povera terra angariata e martoriata e povere le sua creature terrorizzate e costrette a subire; sarebbe mai stato possibile liberarsi del giogo mafioso espressione del potere malato? Era questa la domanda che mio padre probabilmente si poneva e la cui risposta negativa lo aveva poi spinto a muoversi diversamente.
In quell'inverno del '45 i due nonni fascisti, ormai nostalgici, poi increduli e sgomenti di fronte all'incalzare delle notizie che si susseguivano sulla fine di Mussolini, avevano invece ripreso i loro antichi incontri e trascorrevano le notti a ricordare il tempo che fu, ma soprattutto a rimpiangere Lui, che forse non era morto, ma era fuggito, salvato forse dagli stessi americani e che forse presto sarebbe ritornato.
Dopo la mia partenza per il continente non avrei più rivisto né l'uno né l'altro.


Partire

Partire significa non tornare mai più.
A me giovanetta quell'esperienza avrebbe lasciato, sepolta nel mio intimo, questa convinzione e nient'altro, se non scampoli di vita vissuta in quel traumatico abbandono degli affetti, dei cieli, del sole, del calore e dei colori della terra che mi aveva vista nascere e poi partire per sempre all'età di 17 anni compiuti; un'adulta con la memoria bambina. Anche questo tempo mi sfugge, ma sento stringente l'angustia che accompagna gli spezzoni che testimoniano tangibilmente gli avvenimenti. Lo strazio dei saluti, gli ultimi, definitivi; gli abbracci e le lacrime; i silenzi nel cuore. Il trasferimento dalla grande casa alla stazione, quella delle linee sicule, bombardata e ancora notevolmente danneggiata; il viaggio senza luogo e senza tempo, ma pieno di odori acri nelle narici, stanchezza e sonni irrequieti; i nostri pochi bagagli; mia madre bella con i capelli morbidi sulle spalle fermati in alto in due bande separate e i suoi grossi occhiali a nascondere gli occhi piccoli ma vivacissimi, il volto animato dall'imminente avventura. Mio padre appesantito dalle due grosse valigie che le cammina accanto con passo sicuro, lo sguardo limpido proiettato in avanti; da pochi mesi vivevamo in una Repubblica e il futuro gli sembrava più libero e felice, soprattutto lontano dalla Sicilia. Il mare e lo stretto da attraversare sulla nave traghetto, la Messina, l'unica superstite delle ammiraglie del periodo anteguerra, l'Aspromonte, la Scilla e la Reggio, affondate per evitarne l'utilizzo al nemico, sempre stracarica e che per questo si era meritata, in quegli anni subito dopo il 1944, il suggestivo soprannome di iaddinaru. E poi, lungo la ferrovia Ionica, l'unica funzionante, il nostro lungo cammino nel continente, verso la Toscana, verso Firenze. Odori, cieli, colori via via sempre più sbiaditi, lingue diverse, macerie e distruzioni identiche, ma ancora maggiori e ancora evidenti. La prima sosta, la più lunga, qualche giorno per riposare, a Gioia del Colle, presso parenti alla lontana, ma felici di accogliere altri esuli, altri che come loro hanno abbandonato la terra delle origini, in cerca di fortuna perché cu nesce arrinesce era questo il motto di incoraggiamento che non nascondeva in quel nesce il dolore per l'uscita e l'abbandono, ma anche l'attesa della riuscita nell'avvenire più prossimo, quasi uno scotto da pagare, ma per il quale valesse la pena.
Di Gioia del Colle, dove restammo cinque giorni, non ricordo nulla; resta invece legata a questa località la mia prima esperienza con la mozzarella, precisamente la treccia. Alle cinque di quei pomeriggi c'era un appuntamento che ricordo con precisione: un grande stanzone con due grossi recipienti dal contenuto denso e biancastro. Ai bordi dei recipienti, un uomo sbracciato infila completamente il braccio nella massa densa rimestandolo con forza, almeno tale pare la difficoltà nel compiere l'operazione. Ne estrae quindi la parte più solida; con velocità e maestria l'arrotola, con il braccio ormai fuori dal contenitore, mentre con l'altro la recide ottenendo pasta di mozzarella intrecciata, di varia lunghezza e spessore. La treccia gocciola latte e ancora calda viene sistemata dal mozzarellaio nelle scodelle che abbiamo portato da casa. I ragazzi, i miei lontani cugini, la addentano; gocciole di latte scendono lungo le loro dita che stringono la pasta morbida, calda e sugosa; mi invitano a fare altrettanto, ma un groppo ed un peso acuto mi impedisce di far passare dalla bocca allo stomaco anche il più piccolo boccone; annuso con diffidenza la massa biancastra che giace nella mia scodella e scuoto la testa; mi canzonano e mi punzecchiano; non mi voglio sporcare? Non so usare le mani? Non posso e non voglio rispondere; sorrido imbarazzata e aspetto di tornare a casa. Di quella bontà sopraffina avrei sentito parlare in seguito, ma io non ne ho mai conosciuto il sapore.
I parenti che ci ospitavano insistettero perché restassimo a Gioia; nodo stradale e ferroviario, con un campo di aviazione importante, avrebbe sicuramente offerto opportunità di lavoro a mio padre e a mia madre. Così ci invogliavano i nostri lontani parenti; mio padre restava comunque irremovibile. In parte seguiva indicazioni fornitegli da suo padre che in tempi lontani era stato a Pisa con tutta la famiglia. Il nonno conservava ancora una vecchia foto di mio padre, allora bambino, con la madre in piazza dei Miracoli, e soprattutto il ricordo di un periodo felice della sua vita che associava alla cittadina toscana e dove era sicuro che anche mio padre avrebbe trovato una sistemazione. Non so di preciso quali strani disegni perseguisse mio padre allora, ma so per certo che non era Pisa la sua destinazione, bensì Firenze.
Firenze non è solo una bella città per la sua geografia dalle forme morbide e dolcemente ondulate, per il fiume che l'attraversa fondendo gli elementi dell'acqua e della pietra, è una esposizione d'arte permanente in piena armonia con il paesaggio naturale che l' accoglie. Io so con certezza che ne rimasi folgorata nonostante allora fosse ancora pesantemente ferita e mutilata dalle incursioni aeree, con le piaghe ancora aperte e visibili in quei buchi al posto delle macerie e in quei palazzi e torri spettrali in mezzo ai crolli tra gli spazi vuoti. La bellezza è una buona medicina. Firenze non riuscì a guarirmi, ma il suo fascino riuscì a conquistarmi al punto che concentrò la mia attenzione in un'opera di ricostruzione libraria di quanto era andato distrutto con le bombe tedesche nei quartieri trecenteschi intorno al Ponte Vecchio. La storia da studiare a scuola diventa meno interessante della storia della città che ho cominciato ad amare. Mi chiudo in Biblioteca Nazionale a consultare libri e vecchie foto che mi restituiscano integra l'immagine della Firenze prima dei bombardamenti e prima delle mine tedesche. La scuola occupa un posto di secondo piano; mi crea problemi di inserimento, di rapporti con i coetanei e con gli adulti, scrupoli nei confronti di mio padre, nei confronti di me stessa che mi confronto per la prima volta con difficoltà scolastiche. Essere bocciata è forse quello che voglio, per riuscire ad integrarmi un po' prima di impegnarmi nuovamente nello studio. Sono assorbita completamente dal conoscere capillarmente il centro storico della città non solo visitandola, ma soprattutto studiandola dai libri di storia e di storia dell'arte. Le mine tedesche dell'agosto del '44 avevano fatto saltare tutti i ponti ad esclusione di Ponte Vecchio che fu comunque bloccato negli accessi dalle distruzioni delle due aree di qua e di là d'Arno; sulla sponda destra del fiume le distruzioni furono ingenti. La ricostruzione delle zone del centro storico fu oggetto di studio ma anche di partecipazione popolare: due le posizioni che, all'inizio del 1945, avevano trovato posto nelle pagine dei primi due numeri della rivista Il Ponte , nata appunto nell'aprile del '45; la prima era del critico americano Bernard Berenson, sostenitore della ricostruzione in base al criterio com'era, dov'era, cioè della riproduzione il più possibile fedele all'originale degli edifici distrutti; la seconda era quella di Ranuccio Bianchi Bandinelli che riteneva il ritorno al passato come atto retorico in quanto costruito su di un falso, un falso antico, e proponeva pertanto interventi innovativi. Io mi votai anima e corpo alla corrente che ripristinava, che voleva riportare il più integralmente possibile il prima. Ma com'era Firenze prima, io non lo sapevo e questa ricerca assorbì tutte le mie ansie e ricordi e angustie del mio recente passato, proiettandomi verso un futuro che, in quella lotta tra l'una o l'altra visione ricostruttrice, sentivo più mio. In realtà a Firenze la ricostruzione della zona di qua e di là d'Arno intorno a Ponte Vecchio fu di compromesso tra vecchio e nuovo; la Torre dei Rossi-Cerchi come Giano presenta il lato verso il Ponte Vecchio nel tradizionale filaretto in pietra a vista, ma guardandola da via Guicciardini mostra invece un'inconfondibile facciata anni '50; la torre dei Rigaletti, già dei Gherardini, che si trova poco dopo via Por Santa Maria, è invece prevalentemente originale nei materiali e nella ricostruzione basata su disegni e foto storiche. Ma queste antiche torri, come quelle degli Amidei, danneggiata a metà senza però crollare completamente, sono in mezzo agli edifici degli anni della ricostruzione. La vecchia Firenze trecentesca non era riuscita quindi a rinascere, neppure falsamente antica. I fiorentini di allora non apprezzarono memori non solo di come era; probabilmente avrebbero condiviso l'opinione di Giuseppe Impastato quando sosteneva che bisogna proteggere il nostro paesaggio dallo scempio anche perché nessuno avrebbe ricordato più com'era prima e lo scempio sarebbe sembrato una normale bruttura. Solo il Ponte a Santa Trinita può dirsi restituito ai suoi antichi splendori, soprattutto dopo il fortunato ritrovamento della testa della Primavera. Ricordo ancora i manifesti che tappezzarono la città per incentivarne la ricerca: promettevano 3000 dollari a chi fosse in grado di darne notizie valide al ritrovamento. Già dal '44 si erano cercati i pezzi del ponte in Arno, ma la testa della Primavera in un primo momento non fu trovata. Leggende metropolitane si diffusero sulla sorte toccata alla bella testa della statua del Francavilla che dal 1608 ornava il ponte: i più la credevano perduta per sempre, rubata si diceva da un soldato americano, però un nero; altri credettero di averla ritrovata nel Lazio; pochi avrebbero mai immaginato che la custodisse ancora il letto dell'Arno in una fossa maggiore delle altre, dove si era cercato, ma dove le troppe macerie che ancora lo ingombravano ne avevano impedito il ritrovamento. Solo nel 1961 la testa fece casualmente la sua comparsa durante i lavori di drenaggio del fiume che l'aveva saputa custodire e preservare anche dalle sue rovinose piene. La festa fu grande e il ponte magnifico, era stato ricostruito secondo i canoni del com'era e dov'era, recuperandone i pezzi in Arno e riscoprendo le antiche cave di pietra a Boboli, la cava usata quattro secoli prima. Partecipai a quella festa collettiva, ma ormai ero un'altra donna.
A parte il coinvolgimento quasi totale nell'opera di ricostruzione, il restante era occupato da situazioni che ricordo poco distintamente, ma di cui affiorano solo le sensazioni, senza immagini. Ricordo la scuola, lo storico istituto magistrale Capponi in piazza Frescobaldi, il mio disagio e le mie fughe. Tutto in me era inadeguato alla nuova geografia, a partire dal nome. Concetta detta in famiglia Concettina; nella mia terra è un nome molto diffuso, quasi inflazionato derivato dall'Immacolata Concezione, ma in Toscana non trovava la stessa collocazione. Decisi di farmi chiamare Tina, mi suonava più agile e mi faceva sentire meno straniera; il diminutivo si adattava infatti ad essere collegato non solo a Concetta. Il colorito olivastro, i tratti del volto marcati e irregolari, quelli però non potevo camuffarli. Quella dell'essere straniera è un sensazione che mi ha accompagnata per lungo tempo. La lingua era stato il primo baluardo da superare. Scoprivo che la lingua non è fatta di parole, di cose che si dicono e che si pensano, ma che nella lingua c'è un mondo, un passato che si tramanda e che si vive e acquisisce giorno per giorno nella geografia che ti accoglie e nella storia che vivi; è radici. Lo stesso Dante ebbe a dire, per rivalutare il volgare rispetto al latino nel De vulgari eloquentia, che la lingua migliore nella quale esprimersi è quella che si è ascoltata dalla nascita. Mi scoprivo a farfugliare un toscano imitato nella pronuncia e nelle locuzioni, negli intercalari e nei modi di dire, imparavo una nuova lingua è vero, ma solo come espressione del mio malessere e del mio disagio. È difficile non poter avere più una terra di riferimento, perché la si deve cancellare anche dal ricordo, tanto ti fa soffrire, è difficile dimenticare la propria lingua e il proprio modo di entrare in relazione con gli altri, soprattutto perché quegli altri sono diversi nell'approccio, ma è ancora più difficile rinnegare tutto questo patrimonio e acquisire altro come proprio. Solo dopo, più adulta ho recuperato, anzi ho voluto recuperare le mie origini cercandole e spesso senza riuscire più a trovarle; il lavoro di demolizione e rimozione mi era perfettamente riuscito. I miei genitori erano tutti assorbiti dalla conduzione della famiglia, dal lavoro, dalle difficoltà di trovare un alloggio stabile e non troppo oneroso; non riuscivano a capire o forse a vedere le mie difficoltà o forse, da adulti, sapevano farvi fronte in modo diverso. Mio padre aveva trovato lavoro alle Ferrovie, mentre mamma, raffinata ricamatrice, lavorava anche per i Ricami fiorentini. Anche loro avranno avuto le loro difficoltà ad inserirsi, ma non si vedeva. Ricordo che mia madre, sebbene lavorasse tanto e per un salario misero in proporzione, era garrula e felice; la mattina usciva di casa canticchiando un vecchio motivo della Pizzi Tutto passa e si scorda un motivetto allegro nel ritornello che mia madre intonava con voce squillante tutto deve finir e le nubi nel cielo dovranno sparir e tornava la sera annunciandosi con lo stesso motivo, quasi non ci fosse stata soluzione di continuità tra i due momenti. Più tardi mi sono chiesta se quel gioioso ritornello non fosse altro che un incoraggiamento che riprometteva a se stessa tutte le mattine e tutte le sere; cosa doveva scordare mia madre? Anche mio padre, sebbene visibilmente stanco, era indaffarato in riunioni serali che lo vedevano spesso tornare nel cuore della notte e alzarsi comunque qualche ora dopo per andare a lavorare. Partecipava sicuramente a riunioni politiche alle quali non accennava minimamente. Seppi solo con l'attentato a Togliatti che si era iscritto al Partito Comunista Italiano.
Mia madre da ragazza si era specializzata nel trapunto sia ovattato che a cordoncino o trapunto fiorentino, una tecnica antichissima diffusa e nota anche in Sicilia e nell'area mediterranea; è un ricamo a rilievo, molto gradevole e decorativo. Negli anni in cui lei lavorava a Firenze veniva usato per colli e polsi di vestaglie di raso di cotone o di seta, ma anche per impreziosire buste portabiancheria e coperte. Conservo ancora la mia coperta da culla; mia madre l'aveva ricamata negli ultimi mesi di gravidanza. Ha motivi floreali e fiocchi e uccelli; la trapunta è di colore azzurro, non so se per scongiurare la nascita di una femmina o perché a mia madre era particolarmente piaciuta la tinta pastello di quella stoffa in rasatello di cotone. Il ricamo a rilievo è delicato e il filo utilizzato è di colore su colore. Era abbinata ad un lenzuolino bianco il cui bordo riproponeva alcuni dei motivi della piccola trapunta. Non sono una feticista, ma mi ha sempre rammentato l'amore che mia madre portava verso la creatura che teneva in grembo. I ricordi di quel mio tempo perduto sono così pochi che da sempre mi sono aggrappata anche agli oggetti, quasi reperti a testimonianza di quel lungo periodo. Il mio tempo dimenticato è una lunga parentesi che si chiude solo nel 1951; da quel momento è tutto stranamente ben chiaro; dall'ottobre di quell'anno la mia memoria bambina ha come conosciuto una crescita vertiginosa diventando adulta e forte. Il prima si compone invece di spezzoni più o meno lunghi e più o meno sicuri; ho cercato di ricucirli, quasi maestra di rammendo, colmando i buchi e aggiungendo a volte qualche ricamo, per farli più belli e gradevoli.
Dal '48 al '51 ancora solo episodi occupano la mia memoria: lo zio Giovanni che passa da Firenze diretto a Milano, anche lui partiva ma da solo, al momento, verso il Nord, successivamente vi avrebbe portato la famiglia. Quell'incontro straziante mi precipitò di nuovo nell'acuto dolore che mi premeva il petto e di cui non avevo fatto menzione ad alcuno. Era un dolore forte, soffocante; saliva dalla bocca dello stomaco e si irraggiava poi al centro, come un macigno che premesse lo sterno. Lo zio non si fermò, ma i pochi minuti alla stazione bastarono ad aprire vecchie ferite. Ci abbracciamo mescolando le nostre lacrime, le nostre parole, lingue antiche e nuove si mescolano senza criterio. Sorrisi rassicuranti tentano di smorzare palpiti di gioia e vecchi dolori. Mani allacciate, racconti. Bene, stanno tutti bene, ma. Parole terribili raccontano fatti che non voglio sentire.
Languore, senso di vertigine, stretta dolorosa alla bocca dello stomaco, apnea.
La grande casa sarà venduta insieme alle terre; il nonno e la nonna trasferiti in paese; la grande casa probabilmente abbattuta per far posto ad una grande via di comunicazione. Il mio mondo sta crollando da lontano; non so salvarlo mentre sta per scomparire definitivamente. Percepisco la mia fragilità mentre cedo, mi spezzo e frantumo.
Per giorni, non so di preciso quanti, mi muovo imbambolata, non posso parlare e ingoiare nulla. Nessuno ci bada; mio padre e mia madre sono anch'essi taciturni e disappetenti.
Oltre alla visita dello zio, di quegli anni solo altri due avvenimenti occupano abbastanza spazio, non come ricordo tangibile di fatti, volti, persone, ma come sensazione di quel che provavo: il mio diploma e la morte di mio padre. Il mio diploma è stato l'ultimo ed il più bel regalo che abbia fatto a mio padre prima che morisse. La scuola è un altro dei miei momenti bui; conservo pochi e sfumati ricordi della mia classe, delle compagne, degli insegnanti. Molti volti si sovrappongono e confondono tra fisionomie affini. Ho memoria del mio banco alto e nero con il seggiolino reclinabile che quando ti alzi devi accompagnare per non fare rumore. Rivedo il piano inclinato e la scanalatura dove appoggiare la penna e il buco vacante della boccetta per l'inchiostro. Accanto a me intravedo una grossa macchia nera, quella del lungo grembiule della mia compagna di banco dallo strano cognome riferito ad un ortaggio che ora non riesco bene ad identificare. I terribili e sempre peggiori risultati dei compiti di latino tra i quali il più significativo era sottolineato da un 1--.La campana liberatoria e il mio gironzolare per la città o verso il ponte alla Vittoria il primo ad essere ricostruito in poco più di un anno tra il '45 e il '46 o verso ponte S. Niccolò, terminato nel '49 ad una sola campata, ma che lasciò insoddisfatti molti fiorentini.
Il vecchio ponte, costruito nel 1837, era opera di ingegneri francesi esperti nella costruzione di ponti metallici e si chiamava San Ferdinando; cambiò nome alla fine del granducato e fu detto appunto a San Niccolò. Non ebbe vita facile; abbattuto dall'alluvione del 1844 fu ricostruito e poi minato e distrutto nel 1944; era un bel ponte sospeso che avevo visto ed ammirato nei dipinti ottocenteschi che lo ritraevano e ne avevo colto le suggestioni: si stagliava con la sua struttura aerea in uno dei tanti tramonti sull'Arno, contornato da campanili e torri e cupole della città antica chiusa ancora tra le vecchie mura; i tramonti sul fiume molte volte mi avrebbero stretto in un abbraccio di tenera e struggente melanconia, anche in quell'opera di cantieri aperti e di ricostruzione, nell'ora che volge il disio.
Ricordo perfettamente i risultati finali di quell'anno scolastico del 1948 la cui dicitura inequivocabile mi indicava respinta. Il '49 lo ricordo meglio; miglioravo anche perché mi sentivo meno sola. Ero stata inserita in una nuova classe e lì avevo trovato Pina, figlia di sfollati dalla campagna, come tanti nel '46 verso la città. Qualcosa ci accomunava, a partire dal nome; in realtà Giuseppa, quindi Giuseppina e infine Pina non era dissimile dal percorso seguito dal mio per approdare al definitivo Tina. Non era la mia compagna di banco eppure si era accorta di me ed aveva per me una stima che stentavo a capire. Ramata, con due occhi verdi grandi e ridenti, un'aria schietta e una bocca sempre pronta al sorriso condiscendente e disincantato di chi sa cogliere l'ironia anche nelle avversità. Mi colpiva il suo spirito burlone e la sua arguzia nel sorprendere in ciascuno debolezze celate. Con lei riesco a guardare di nuovo avanti e riesco ad intravedere ciò che prima non riuscivo nemmeno a immaginare. Pina diventa la mia amica, quella che non avevo mai avuto e che, come a poche persone è dato di avere, sa starmi accanto e sostenermi senza che io ne sia consapevole. La sua fiducia è contagiosa e tutto mi pare più semplice. Senza di lei non sarei riuscita forse a superare l'improvvisa morte di mio padre.
In realtà io non l'ho mai superata.
Ancora oggi lo immagino in terre lontane a perseguire i suoi ideali di giustizia e di riscatto delle masse più umiliate; lì la sera a veglia racconta di sé e della sua vita, fatta di rinunce e di lotte, ma anche di soddisfazioni e vittorie.
Non l'ho visto uscire e non l'ho più visto tornare. Quel feretro per me è un vuoto giaciglio, mio padre è altrove.
Mia madre piange l'uomo, il compagno discreto, il lavoratore, colui che era morto sul lavoro, in un incidente, uno dei tanti.
Sognavano una vita diversa, speravano nella rivoluzione vagheggiata e sentita imminente soprattutto dopo l'attentato a Togliatti; tempesta senza vento l'aveva definita mio padre in preda ad un'amara considerazione in cui paragonava l'Italia alla Sicilia; ora dovevano arrendersi di fronte ad un imprevisto, a un incidente, ad una fatalità.
Si era arresa mia madre, a quarantadue anni, ancora così giovane.
La mia mente o forse tutto il mio essere rifiuta un viaggio più capillare in quel tempo. La memoria si annebbia e mi pare di soffocare. Venti anni di una vita occuperebbero poco più di venti pagine.


A che serve passare di giorni se non si ricordano?
Cesare Pavese Dialoghi con Leucò

 
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