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Narrativa

La capsula di Massimo Acciai, Il lupo di Massimo Acciai e Antonella Pedicelli, Disordine di pensieri di Antonio Caterina, Il deserto e la città di Elisabetta Giancontieri, La cura di Andrea Mucciolo, La macchina del tempo di Andrea Mucciolo, Il cellulare di Massimo Acciai e Andrea Mucciolo, Isaia di Matteo Nicodemo, Resoconto del Viaggio nelle Province Occidentali di Paolo Ragni

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai e Matteo Nicodemo, Stefano Calosso, Andrea Cantucci, Antonio Carollo, Antonio Caterina, Rossana D'Angelo, Lucia Dragotescu, Eleonora Ruffo Giordani, Carolina Lio, Cesare Lorefice, Roberto Mosi, Anna Maria Volpini

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Dario De Lucia, Amanda Nebiolo

Interviste

Intervista a Dario De Lucia
a cura di Massimo Acciai
Il Simposio di Poeti: Intervista a Giovanna Salerno
a cura di Massimo Acciai

Recensioni

- "Pensieri a banda larga" di Dimitry Rufolo
- "Tre metri sotto terra" di Massimiliano Nuzzolo
- "Fiori d'anima" di Eleonora Ruffo Giordani, nota di Massimo Acciai
- "Basso Impero" di Claudio Comandino, nota di Enrico Pietrangeli
- "Autunno tedesco. Viaggio tra le rovine del Reich millenario" di Dagerman S.
- "Senza dirsi" di Ettore Giaccari
- "La voce come medium: Storia culturale del ventriloquio" di Steven Condor
- "Tre mesi di febbre- Storia del killer di Versace" di Gary Indiana
- "La memoria dell'acqua" di Antonio Messina, recensione di Patrizia Garofano
- "Le vele di Astrabat" di Antonio Messina, recensione di Monica Cito
- "Il racconto ulteriore" di Flavio Ermini, nota di Enrico Pietrangeli
- "Adottato" di Josè Monti
- "Trame di mutevoli speranze…" di Concetta Angelina Di Lorenzo, nota di Massimo Acciai
- "Canti dai mobilifici o maledizioni in Brianza", a cura di Fabio Paolo Costanza
- "Vangelo di Giuda" di Antonio Bica, recensione di Simonetta De Bartolo
- "101 sms d'amore e d'odio" di Anna Maria Volpini, nota di Massimo Acciai
"Ad Istanbul, tra pubbliche intimità" di Enrico Pietrangeli, nota di Massimo Acciai
- "Teatro totale" di Alfio Petrini, nota di Enrico Pietrangeli

Saggi

Altermodernismo e poesia
Articolo di Apostolos Apostolou
L'estetica e la poetica come dinamica dell'espressione filosofica?
Articolo di Apostolos Apostolou
Il libro digitale, o e-book, ha un futuro?
Articolo di Andrea Mucciolo
La poesia non so cosa sia
Articolo di Cesare Lorefice

Il cellulare
 

di Massimo Acciai e Andrea Mucciolo


"The last that ever she saw him carried away…"

Ogni volta che cercavo di capire di quale celebre canzone di trattava - ce l'avevo sempre sulla punta della lingua! - la musica cessava nel momento in cui la mia amica Rina rispondeva al cellulare, e addio titolo.
Le avevo chiesto una volta perché aveva scelto quella suoneria. Lei mi aveva dato di "curioso come una cimice" e poi eravamo scoppiati a ridere come nostro solito. Mi ero incaponito nell'indovinare quel motivetto cantato da una voce femminile che aveva qualcosa di onirico. Naturalmente avevo pregato la mia amica di non rivelarmelo, volevo indovinarlo da solo.
La mia amica era una ragazza molto carina ma, per quanto a volte ci scherzassimo su, non mi sentivo attratto da lei. La nostra amicizia era del tipo puro e raro che capita talvolta tra persone di sesso diverso. Ci capivamo al volo, senza molte parole.
Quel pomeriggio stavamo prendendo un caffè nel centro commerciale di ***. Solita folla affaccendata per gli acquisti e solite facce stravolte ai tavolini. La pioggia che batteva violenta sulla vetrata sopra le nostre teste sembrava aumentare la frenesia delle persone. C'era qualcosa di elettrico nell'aria, insieme a qualcosa di più sottile che non saprei definire se non come un ché di "diverso" dagli altri temporali estivi che ci avevano sorpreso in passato. Ci eravamo rifugiati al bar durante uno di quegli acquazzoni, con tuoni e fulmini, che rendono sopportabile una stagione deprimente come l'estate. La pioggia e la frescura che portava con sé ci mettevano entrambi di buonumore. Ridevamo come matti mentre correvamo al riparo, insieme ad altre persone sbuffanti e sudate. Ci sedemmo e prendemmo un caffè e un mascarpone, se non ricordo male, ma questo non ha molta importanza. Alcuni ricordi di quel pomeriggio sono molto nitidi, per quanto insignificanti, altri meno.
Stavamo chiacchierando quando mi suonò il cellulare. Non ricordo chi fosse, non era importante. Quando riattaccai vidi Rina che cercava qualcosa nella borsetta.
"Cavoli, non riesco a trovare il cellulare" disse, scocciata "l'avrò lasciato a casa".
"Perché non provi a chiamarti col mio?" le dissi, porgendogli il cellulare "Così se è in borsa lo trovi subito".
Quante volte avevo ritrovato così l'odiato-amato oggetto! Qualcosa me lo faceva lasciare immancabilmente in giro per casa ed era inutile cercarlo; prendevo la cornetta del fisso e mi chiamavo. La suoneria mi guidava altrettanto immancabilmente in qualche angolo impensabile della casa. La mia era una suoneria piuttosto banale, ma a me andava bene così. Per scherzo dicevo che l'avrei cambiata solo se avessi trovato qualcosa di originale come, che so, l'inno esperantista o il "Trillo del diavolo" di Tartini. Ma neanche questo è importante per il fatto che sto raccontando.
Insomma, Rina prese il mio cellulare, fece il numero e rimase in attesa. Anche quella volta tendevo l'orecchio per ascoltare la famigerata suoneria, ma invano. Dopo qualche attimo notai la sua espressione stupita, inquieta, terrorizzata.
Qualcuno aveva risposto.

Vedere la mia amica così sconvolta mi fece una strana impressione. Riattaccò dopo qualche istante senza dire una parola. Rimase silenziosa, a fissarmi, per non so quanto tempo, stringendomi le mani. Le sue erano gelide. Era molto pallida.
"Che succede?" le chiesi, non so quante volte.
Attorno a noi la gente proseguiva indifferente i propri dialoghi.
Strinsi anch'io le sue mani, per riscaldarle un po' e per farle coraggio. Il suo sguardo era vuoto. Stava tremando.
"Ti senti male?".
Iniziavo a preoccuparmi sul serio.
"Non è nulla" disse cercando di riprendere il controllo "Davvero, ora mi passa".
Non ero convinto. Le chiesi se voleva bere qualcosa, magari un tè o qualcosa di più forte.
"Un Bayles"
Le portai un bicchierino del liquore. Lo vuotò in un attimo.
Più tardi, mentre la riaccompagnavo a casa in macchina, si decise infine a parlare.
La pioggia continuava a battere furiosa sull'abitacolo. Sembrava una bufera invernale, fui costretto ad accendere il riscaldamento in macchina. La sera era giunta con molto anticipo.
"Devo aver fatto un altro numero" disse, quasi cercando di convincere se stessa.
"Vuoi riprovare a chiamare?" le chiesi.
"No!" quasi urlò poi, riabbassando la voce "Non mi sento molto bene, sono un po' stanca…"
Non aggiunsi altro.

Qualche giorno dopo ci ritrovammo al corso serale di doppiaggio che seguivamo insieme. Il corso si teneva in un oscuro palazzo in periferia, dove aveva sede un'associazione che organizzava, tra le altre cose, corsi di musica, doppiaggio e altro. Era il tempo in cui stavamo cercando entrambi lavoro, e nell'attesa di trovarlo ci eravamo iscritti a quel corso con la speranza di aumentare le nostre possibilità.
Entrò in aula in ritardo. Si sedette cercando di non dare nell'occhio, ma vidi subito che c'era qualcosa che non andava. Aveva lo sguardo perso nel nulla, era chiaro che non stava ascoltando una parola di quello che diceva l'insegnante. Al termine della lezione mi avvicinai a lei. In un primo momento sembrò sfuggire da me, poi mi si gettò tra le braccia e cominciò a piangere. La lasciai sfogare.
Qualche minuto dopo si calmò e mi chiese scusa.
"Ma di che?" risposi abbracciandola "Dimmi piuttosto che succede"
Lei esitava. Pareva cercasse le parole per descrivere ciò che non poteva essere descritto, senza almeno essere presa per matta. Ebbi questa precisa impressione, ancora prima che mi dicesse qualcosa. Ci eravamo sempre capiti senza molte parole.
"Non riesco a trovare il mio cellulare" mi disse infine.
"Dai, non è così grave…"
"Ne ho comprato uno nuovo"
Seguirono altri attimi di silenzio. Aspettai con pazienza che proseguisse, anche quella situazione stava facendo ammattire anche me.
"Ho riprovato a rifare il vecchio numero" proseguì con voce strozzata "e…"
Ricominciò a piangere.
"Oddio, che sta succedendo?? Non sono pazza! Credimi, non lo sono!!"
Il tono isterico sembrava davvero smentire le sue parole, ma la conoscevo troppo bene per dubitare anche solo un po' della sua sanità mentale. La mia amica Rina era forse la persona più equilibrata e controllata che conoscevo. Eppure non sapevo cosa pensare.
"Mi ha risposto qualcuno…"
"Devono averti preso il cellulare mentre eri distratta…"
"No!" urlò "Non capisci: quel qualcuno AVEVA LA MIA VOCE!"
Ecco, questa proprio non me l'aspettavo.
Rimasi muto.

"Rina, alle volte per telefono la voce può cambiare, lo sai, specie con un cellulare, quindi tutto questo è normale, voglio dire, una certa somiglianza nella voce", cercai di tranquillizzare la mia amica, ma in realtà, anche se non sapevo bene il perché, non mi sentivo per niente a mio agio neanche io.
"Allora non hai capito, la voce non era uguale alla mia, ma era la mia!" Vidi la mia amica allo stremo della forza morale, sembrava sul punto di crollare da un momento all'altro. Non riuscii a trovare una risposta convincente da darle, eccetto, e quasi mi vergognai a pensarlo, che la sua salute mentale fosse compromessa in qualche modo. L'unica cosa sensata che mi venne in mente di dire fu questa "Andiamocene via".
Rina seguì questa mia esortazione come fosse un ordine, con la massima velocità e convinzione, come se avessi interpretato il suo pensiero alla lettera.
La portai fin sotto casa. Per la prima volta, vedendola in quello stato, con gli occhi lucidi, piccola, indifesa, nei confronti di qualcosa più grande di lei, un qualcosa verso cui nessuno di noi due sembrava potesse fare niente, per la prima volta, sentii che provavo qualcosa che andava oltre il semplice affetto. Non potevo dire di esserne innamorato, e neanche volevo pensarlo, eppure qualcosa dentro di me era cambiato, in una maniera che mai avrei ritenuto possibile.
"Promettimi che per qualsiasi cosa mi chiamerai" le dissi dolcemente, con appena un accenno di lucido nei miei occhi.
"Promesso" e mi baciò sulla guancia. Mentre stava per chiudere lo sportello, la esortati un'ultima volta: "Non pensarci, vedrai che è una cosa da nulla", mi sorrise appena, richiuse lo sportello e fu inghiottita dal grande portone del suo palazzo, dove viveva sola al quinto piano.
Mi avviai verso casa. Non feci la strada più breve, non avevo voglia di rientrare nel mio appartamento per essere assalito dalla solitudine e dai miei pensieri. Passai lungo l'Arno. Vidi quel fiume risplendere vigorosamente, severo e curioso sotto una luna che appariva bonaria. Appariva e basta. Già sapevo che quella notte non avrei chiuso occhio. Il mio intuito aveva ragione.

Beep - beep. Beep - beep. Beep - beep. Beep…
Cosa ca…
Il cellulare. Ma che ora era?
Beep - beep.
Maledetta suoneria. Beep - beep. Allungai la mano, vidi il display, era Rina.
"Pronto, Rina? Tutto ok?"
"No! Niente è ok! Proprio niente!!" stava piangendo.
"Rina, ma che succede, ancora la storia della voce?" mi sentivo distrutto, annientato nell'anima, avrei voluto morire, piuttosto che vedere la mia amica ridotta in quello stato, in uno stato da parete imbottita. Sì, desideravo ardentemente la morte.
"Non è solo la mia voce, quella persona sa delle cose su di me… troppo… cose che non è possibile sapere… ", proseguì Rina tra un miscuglio di pianto isterico e di urla.
"Rina, aspettami lì, a casa tua, arrivo subito, resta lì!" sembravo impazzito anch'io da come stavo berciando.
"Ok".
Presi al volo le chiavi della macchina e mi avviai verso l'uscita, per poi accorgermi, non appena aprii la porta di casa, che avevo indosso ancora pantofole e pigiama. Un diluvio di imprecazioni si impossessò di me. In tre secondi mi vestii, non so come, non so con quale criterio o logica, fatto sta che spiccai il volo verso la mia Clio parcheggiata sulle strisce, misi in moto e mi avviai verso casa di Rina, nella città ancora avvolta nelle tenebre. Le cose non andavano affatto bene, no, specie ora che avevo capito una cosa, di cui avevo la certezza assoluta: mi ero innamorato di Rina.

Trovai la mia amica sul letto, un cuscino sopra la sua testa.
Per fortuna avevo un duplicato delle sue chiavi, come lei ne aveva uno delle mie. Neanche provai a suonare, non potevo aspettare. "Rina?"
"Vattene! Vai via!"
"Rina, ma che ti succede? Mi stai mettendo paura, Rina?!"
"Vattene ti ho detto! Tu non sei un mio amico, vuoi solo scoparmi come tutti gli altri, ecco qual è il tuo scopo, sparisci!"
Il cuore mi si frantumò, precipitò in qualche abisso inesplorato dell'anima. La testa mi faceva un male boia cane, sentivo che stavo per dare di stomaco. Mi avviai in cucina, delicatamente mi misi seduto su una sedia, come fossi un vecchio infermo.
Le mani mi tremavano, tutto il mio corpo era in preda ad un trasalimento continuo. Avevo inghiottito un iceberg, e mi era rimasto incastrato tra la gola e la bocca dello stomaco.
All'improvviso, come galvanizzato da una rivelazione a lungo attesa, presi il mio cellulare e composi il vecchio numero di Rina, che ancora avevo in memoria. Il pianto soffocato di Rina copriva il "beep" dei tasti pigiati. Chiusi la porta della cucina mentre il telefono squillava dall'altra parte. Credo che il cuore mi si fermò un paio di volte. Una di quelle fu quando dall'altra parte mi rispose una voce, quella di Rina.
"Pronto?"
La prima cosa che mi venne in mente di dire fu questa: "Insomma la vogliamo smettere con questi scherzi del cavolo, qui c'è una persona che sta male", poi, preso da un attimo di dubbio, posai il cellulare sul tavolo, e in punta di piedi mi diressi verso la camera da letto, dove trovai Rina ancora sdraiata, ma ora non aveva più la testa coperta dal cuscino, e i suoi occhi erano chiusi. Si era addormentata. Rimossi quindi questo dubbio dalla mia mente. Non era lei, non era una messinscena, e non era pazza.
Tornai in cucina, richiusi la porta, ripresi in mano il cellulare. La persona era ancora in linea.
"Chi sei?" domandai. Ma temevo già la risposta.
"Sono Rina, chi dovrei essere?"
"La smetta, qui non c'è proprio nessuno che sta ridendo a crepapelle, a parte forse lei, e infatti credo lei sia disgustosa come essere umano".
"Perché dubiti che io sia Rina?", sembrava offesa.
Già, perché? Presto detto mi dissi, non sono uno scemo.
"Mi dica, brutta puttana, cosa ho regalato a Rina o, mi scusi, cosa le ho regalato lo scorso natale?"
"Un posacenere a forma di paperella", fu la laconica risposta. Una sua amica, poteva averlo detto ad una sua amica, questa era una domanda troppo facile, altri avrebbero potuto sapere la risposta. Dovevo penare a qualcosa di diverso per smascherare questa bugiarda maledetta. Un qualcosa di unico, impossibile per qualsiasi mortale da conoscere. Mi venne subito in mente.
"Cosa… che cosa… " non riuscivo a pronunciare le parole, mi sentivo pazzo e mortificato solo a ricordarle "cosa mi hai detto… poco fa… e dove… me l'hai detto…"
" 'Vattene ti ho detto! Tu non sei un mio amico, vuoi solo scoparmi come tutti gli altri, ecco qual è il tuo scopo, sparisci!' e stavo sul letto in camera mia."

Il cellulare mi cadde dalle mani, e si frantumò al suolo, e con lui la mia anima. A fatica ripresi in mano quell'affare malvagio e demoniaco, con la batteria all'aria, con il display scheggiato e i tasti schizzati fuori, ma ancora funzionante, e mi accorsi che quella voce mi stava parlando ancora…
"… Ero immatura, ero solo una ragazzina, sì, anche tu eri un ragazzino, e infatti non te ne faccio una colpa, sedici anni tutti e due! Così, solo per gioco! Porca miseria, due bambini eravamo… però l'aborto sono solo io quella che l'ha subìto, ma anche qui non te ne faccio una colpa… poi, col passare degli anni, entrambi abbiamo rimosso questa spiacevole circostanza, incredibilmente direi io, anzi, forse proprio questo sciagurato evento oramai così lontano ci ha unito in maniera così forte, siamo risorti dalla nostra sofferenza, e siamo stati sempre dei veri amici, ammesso che possa esistere l'amicizia tra uomo e donna…"
Mentre ascoltavo quelle Parole d'Amianto, tra un pianto represso e un dolore penetrante all'intestino, mi diressi nuovamente verso la camera di Rina. Dormiva ancora. L'ultimo bagliore, l'ultima speranza a cui mi ero nuovamente e cocciutamente aggrappato di uno scherzo di pessimo gusto, svanì come il miraggio di una felicità che mai più avrei conosciuto.
"… siamo andati avanti, senza mai guardare al passato. Ma adesso, che sento che i tuoi sentimenti sono cambiati, questo impone una scelta, un rinnovamento nel nostro rapporto, che dovrà essere impostato su basi totalmente differenti…"
Mi avvicinai al corpo di Rina, al corpo senza vita della mia cara e vecchia amica. Le accarezzai la fronte, bagnandola con le mie lacrime amare. Davanti a me, si sarebbe presentata una Rina che mai avevo conosciuto.

Il mio amore, questo amore neonato e immaturo, aveva ucciso per sempre la mia amicizia con Rina, per sempre.
L'amore aveva ucciso…
Dall'altra parte, la voce continuava a parlare…

All'improvviso, il cellulare di Rina, quello nuovo, trillò dal comodino, con la stessa suoneria del precedente… quella melodia…

"The last that ever she saw him carried away…"

Ancora non riuscivo a ricordare il titolo di quella canzone…

Presi in mano il cellulare, e guardai il mio numero luccicare dal display…


Firenze, 24 ottobre 2007 - Ardea, 6 novembre 2007

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