copertina SDP numero 5
  Eventi  -  Redazione  -  Numeri arretrati    
  Indice   -[ Editoriale | Letteratura | Musica | Arti visive | Tempi moderni | Lingue | Redazionali ]-
 

Teatro

Intervista a Claudio Ascoli dei "Chille de la Balanza"... a cura di Massimo Acciai e Monica Pintucci (con la collaborazione di Luca Mori)

Cinema

"Il ritorno" di Andrey Zvyagintsev, con V.Garin, I.Dobronravov, K.Lavronenko...a cura di Mimì

Libri a fumetti

"Il Commissario Spada" di Gonano e De Luca... a cura di Andrea Cantucci

Pittura

E' venuta prima la musica o la pubblicità?... a cura di Monica Pintucci

Teatro


Intervista a Claudio Ascoli
dei "Chille de la Balanza"

a cura di Massimo Acciai e Monica Pintucci
(con la collaborazione di Luca Mori)

Claudio Ascoli è il fondatore dei Chille de la balanza, una compagnia storica del Teatro di ricerca italiano, nata a Napoli nel 1973. All'inizio, la compagnia si dedicò al recupero delle tradizioni popolari. Subito dopo (dal 1977) i Chille passarono ad un approfondimento sul Teatro delle Avanguardie Storiche (Futurismo, Dadaismo e Surrealismo), sviluppando successivamente (dal 1980) una ricerca su Teatro dei luoghi/Teatro in strada e dal 1989 su Antonin Artaud e il Teatro della Crudeltà. Dal 2002 è nato a Firenze-San Salvi (negli affascinanti spazi dell'ex-città-manicomio) un progetto triennale su Teatro tra Rappresentazione e Vita. Esso parte dalla considerazione che, nel momento in cui la vita è ormai ridotta a mera rappresentazione, sia compito del Teatro ri-appropriarsi della Vita. Il progetto ha previsto e prevede ogni anno la produzione di una performance: 2002 Kamikaze, 2003 Macerie, estate 2004 Paure.  I tre eventi, tutti in unica replica di durata intorno alle 12 ore e con una limitata presenza di spettatori, hanno il dichiarato obiettivo di tentare di realizzare quel Nuovo Teatro della Crudeltà, visionariamente ricercato invano da Artaud negli ultimi anni di vita. (dal sito http://www.chille.it)


E' una sera fredda e piovosa quella del 26 gennaio 2004. Malinconica. Per qualche oscuro motivo le interviste che realizziamo io e Monica presentano sempre qualche difficoltà climatica o geografica; infatti ci perdiamo nello spazio labirintico di S.Salvi. Per fortuna Luca Mori ci fa da guida e giungiamo infine al cospetto di Claudio Ascoli, che ci accoglie cordiale dandoci la sensazione di chiuderci il freddo alle spalle ed entrare in un luogo silenzioso, quasi abbandonato, ma pieno di calore umano, di vita. Anche stavolta sono io, Massimo Acciai, a rivolgere le domande, benché scritte per la maggior parte da Monica, mentre Luca traccia veloci schizzi sul suo blocchetto da disegno e - a sorpresa - verso la fine dell'intervista (durata una ventina di minuti) fa un'ultima domanda a Claudio. Le risposte ci forniscono molti spunti di riflessione sul nostro mondo attuale prima ancora che sul teatro. Usciamo soddisfatti dopo avere ringraziato il nostro ospite per la magnifica chiacchierata.

• C: Claudio Ascoli

• MA: Massimo Acciai
• MP: Monica Pintucci
• LM: Luca Mori

MA: Innanzitutto, come nasce il nome Chille de la Balanza? Chi lo ha coniato? Cosa significa?

C: Il nome significa "quelli della bilancia" ed è un nome di venditori di ortaggi e frutti nella Napoli di fine ‘600 inizi ‘700. È un nome strano; nella zona nella quale il nostro gruppo lavorava, che è la zona del centro storico della città di Napoli, c’erano appunto dei venditori che avevano con se una bilancia, la "stadera", e andavano di giorno a vendere ortaggi nelle strade, parlavano con le donne, ascoltavano le loro storie. La sera poi andavano nelle osterie a riferire, modificandole, dopo un bicchiere di vino, queste storie. Abbiamo preso questa idea dell’ascolto, modifica e riformulazione delle storie; ci sembrava all’epoca un’idea molto intrigante. Lavoravamo allora sulla realtà popolare, quindi ci sembrava un nome adatto.

P: Cosa esige in primo luogo dai suoi allievi? Forse la totale fiducia, la disponibilità a chiudere la bocca e lasciarsi imboccare, ad occhi chiusi?

C: No. Io direi che dagli allievi che fanno teatro bisogna chiedere di non aspettarsi delle risposte ma di essere disponibili ad inventarsi delle domande, lavorare non per cercare delle certezza ma per aumentare i punti di incertezza, quindi il coraggio e rigore, direi in primo luogo il coraggio. Non andare alla ricerca di semplificazioni.

MP: Si sente uno che ‘provoca’, o non è tra le sue ambizioni, quella di provocare facendo teatro?

C: Io penso che chiunque vive, provoca. Non è uno scopo, forse lo è stato quando ero più ragazzo, con le avanguardie; forse in quel momento tra le finalità c’era anche la provocazione. Ora credo che provoco malgrado tutto, perché è la vita che in fondo è una provocazione, ma non ricercata.

MP: Chi è per lei Antonin Artaud? Come l’ha conosciuto? Quando ha avuto particolare presa sul suo pensiero? Lo ha in qualche modo aiutato a ridefinire e ristrutturare lo spazio di San Salvi, prima luogo di violenza, accogliendo in sé l’anima delle dolorose tracce della città sotterranea? Forse, non volendo che il linguaggio-corpo restasse imprigionato e ingobbito sotto divise pesanti, lo fa esplodere con il suo "doppio", con la crudeltà, o la cosiddetta oscenità…?

C: Antonin Artaud è un visionario che in qualche modo ha messo in gioco il suo corpo per provare a cambiare il mondo attraverso il teatro. L’influenza è molto alta. L’ho conosciuto relativamente tardi, una ventina d’anni fa, e ne ho conosciuto un pezzo, che è quello che di solito si insegna a teatro, che è appunto "Il teatro e il suo doppio". Io credo che l’influenza di Artaud rispetto al progetto San Salvi è enorme, perché in Artaud c’è la ricerca di una nuova parola, c’è l’alienazione, ed è chiaro che in un luogo come questo l’influenza di Artaud diventa fondamentale. È difficile capire tutte le cose che ti nascono, da dove ti nascono, come arrivano; è indubbio che negli ultimi cinque o sei anni almeno Artaud qui è di casa, è come se avesse trovato una sorta di casa felice. Probabilmente l’ultimo Artaud, quello post-manicomio, nel quale c’è una parola nuova, c’è un ritorno alle glossolalie, il gioco, tutta una serie di cose che sono presenti nel nostro modo di fare teatro e nella nostra vita.

MA: Le nuove tecnologie hanno cambiato il modo di fare teatro? Che peso ha la tecnologia nel vostro lavoro?

C: Un peso secondo me relativo. Hanno cambiato sicuramente il modo di fare teatro, tutto cambia. Noi tendiamo ad usare le tecnologie e a non esserne usati. Non siamo un gruppo di teatro che si appoggia sulla tecnologia; al centro c’è il corpo e il corpo non ha un problema tecnologico se non in modo strano, per cui la tecnologia ha sicuramente cambiato ­ noi utilizziamo la luce, utilizziamo il suono, e quindi utilizziamo in qualche modo tecnologie ­ ma non è significativo per il nostro modo di fare teatro. In questo forse siamo un po’ "vecchi", ma riteniamo che il teatro sia un lavoro di comunicazione vivente di corpi, di "trasferire" corpi. Il mio compito è quello di spostare il mio corpo negli spettatori e viceversa. Spostare corpi non è un problema tecnologico: è un problema di corpi. Se io tornassi indietro di cento anni cambierei, perché cambierebbe il mondo, ma non perché avrei meno supporto tecnologico; mi cambia il mondo in cui lavoro. In questo momento la tecnologia per noi non è così nodale, tant’è vero che noi non investiamo molto in tecnologie. Utilizziamo videoproiettori e telecamere, ma più come "strumento al servizio di" che come qualcosa di a sé stante, a differenza di altre compagnie.

MP: Come mai avete scelto S.Salvi, l’ex manicomio, come sede della vostra compagnia? E’ evidente che non si tratta di una mera (e spietata) operazione di "modernariato"; il luogo della memoria non viene negato e sradicato, reso feticcio, anzi, tutt’altro: il lager viene evocato, e il ricordo della violenza cieca e istutuzionalizzata non si ripiega dolorosamente su se stesso, il luogo della memoria si lascia rivivere, riattraversare dalla vita fino a diventare "città rinata": si ritrova in qualche modo in questo abbozzo di analisi?

C: Sì, e aggiungo una cosa: la nostra terza fase la chiamiamo "S.Salvi, città aperta", dopo "città rinata". Ovviamente la scelta non è casuale; è nelle periferie, nel punto limite, nel destrutturato, nell’abbandonato, che secondo noi c’è la possibilità di ritrovare l’energia per riproporre. Probabilmente perché lì l’istituzionalizzazione, che citavi, in qualche modo perde di forza e quindi ti lascia una relativa maggiore libertà, che è necessaria per un lavoro di creazione. Secondo me è più importante lavorare in un posto come questo che in un teatrino, anche se è molto più complesso e faticoso. Noi puntiamo molto sui luoghi abbandonati, sulle parti periferiche… noi ad esempio stiamo facendo un progetto che di uno spazio ultramoderno prende il garage e da lì far nascere l’operazione. I luoghi abbandonati sono in qualche modo un po’ "donna"; subiscono un’emarginazione ma hanno in loro una forza maggiore, proprio perché nella difficoltà hanno una maggiore libertà, quindi questo secondo me è essenziale. L’abbiamo assunta non come immagine voyeristica né come immagine ostentatamente sofferta; è un luogo di felicità e al tempo stesso di rivisitazione della memoria. Non è casuale che ancora oggi, dopo quattro anni, noi d’estate accompagniamo la gente a giro per San Salvi la notte; esiste ancora questa voglia di riscoprire, anche perché è un luogo in cui ci si può anche perdere. Un luogo abbandonato ha la fascinazione del perdersi, in una società in cui non ci si perde più. Un luogo in cui ci si perde è un luogo che ti costringe a fare i conti con te stesso, a guardarti dentro.

MA: E’ insomma un luogo da esplorare…

C: Sì, individualmente e collettivamente, in modi diversi. È un luogo nel quale il tuo percorso esplorativo nasce da te, non ti viene imposto, non c’è una visita turistica; è un percorso individuale e collettivo insieme. Un percorso "politico", nell’accezione più alta del termine. Questo, a differenza del teatrino, non è un luogo autoreferenziale. È complicato mantenerlo vivo, ma proprio in questo sta il suo fascino.

MA: Ho avuto occasione di vedere il video girato durante Kamikaze, lo spettacolo "estremo" che tanta risonanza ha avuto sulla stampa (ricordiamo ai nostri lettori che lo spettacolo si è svolto a San Salvi l’11 settembre 2002, data non casuale, ed ha avuto per protagonisti cento volontari estratti a sorte tra i moltissimi desiderosi di essere sequestrati per dodici ore ­ dalle 21:30 fino al mattino). Sono rimasto molto turbato. Ha avuto modo di raccogliere le impressioni, a caldo e a freddo, di qualcuno dei partecipanti? Che idea s’è fatto di loro? Dov’era lei durante lo spettacolo? Come lo ha vissuto?

C: Ho raccolto un sacco di testimonianze. Devo dire la verità; mi ha colpito in negativo una cosa di Kamikaze, cioè il fatto che la maggior parte degli spettatori, quando sono stati messi in questa struttura-lager, nella quale io li ho in qualche modo privati di identità, non hanno di fatto opposto resistenza. Questa è stata la prima risposta shock per me; mi aspettavo una reazione più dura, almeno di disagio, di rifiuto, invece ho avuto la precisa sensazione ­ che non è allegra ­ che di fronte a questa situazione di chiusura organizzata, probabilmente in questo momento potremo tranquillamente ­ visto che siamo il giorno prima del 27 gennaio ­ ritrovarci in un olocausto. La sensazione che ho è che la gente di fronte a un qualcosa di organizzato ha difficoltà a mantenere la sua differenza rispetto agli altri. Molti spettatori sono rimasti affascinati; molti di questi sono rimasti in contatto, molti hanno visto anche Macerie, sono diventati amici. Devo dire che tutti lo ricordano; sicuramente ha avuto questa capacità di rompere, proprio perché era molto critico. Io ero sequestrato come voi, chiuso nella regia, in un bunker un po’ alla Saddam Hussein. Ero chiuso in una stanza senza luce e senza cesso, con due monitor per guardare le cose e non potevo neanch’io, come gli spettatori, fare pipì, perché non potevo fuoriuscire, quindi mi sono reso conto in modo chiaro che quando nasce un luogo totale non esiste differenza tra carcerieri e carcerati; un po’ quello che stanno sperimentando i cittadini americani. Sono convinti che stanno controllando il mondo, ma non possono più andare a fare pipì senza la paura che gli scoppi una bomba. Nella realtà quando sei in un carcere, o sei carceriere o sei carcerato ma stai sempre in un carcere. Purtroppo ora non ci sono più i manicomi e i carceri da soli; la tendenza è un po’ l’assunto di partenza di Kamikaze, e cioè che tutta la Terra è diventata un carcere. Non abbiamo più la possibilità dell’utopia, del sogno, che è la libertà.

MA: Ci stiamo un po’ assuefacendo all’idea del carcere globale?

C: Io ho la sensazione che non lo stiamo leggendo nella sua gravità. Il problema è più complesso; siamo tutti carcerati. Le nicchie di libertà che esistono si vanno sempre più chiudendo e si è sempre più incarcerati; chi giocando a fare il carceriere, convinto di stare meglio, ma in fondo non è così, e chi soffrendo a fare il carcerato è convinto di stare peggio, ma probabilmente non sta molto peggio del carceriere. Io non vedo una grande differenza fra il soldato americano in Irak e l’iracheno chiuso dento. Il soldato americano sa che ogni giorno può saltare in aria e l’iracheno sa che il soldato americano lo può ammazzare. È difficile stabilire chi è il carceriere e chi è il carcerato perché si è creato un meccanismo di difficile soluzione.

MA: Come ha vissuto personalmente i tragici eventi dell’11 settembre 2001? Dov’era in quel momento?

C: Ero qui, stavamo facendo una serata su Dino Campana. L’ho vissuto inizialmente come un fatto di grande incredulità, come penso un po’ tutti, perché non avevo ben chiaro cosa stava succedendo. Dopo ho avuto la precisa sensazione, che ancora tuttora non hanno in molti, che l’11 settembre non fosse l’inizio di un periodo diverso nel mondo ma fosse la fine di un momento tragico che non avevamo letto con intelligenza; il momento finale di una tragedia che andava avanti da tempo. Ci siamo trovati con questo grande finale di fuochi di artificio con tremila morti e con la consapevolezza che da lì non ne saremo usciti fuori con facilità. Penso che siamo ancora qui a chiederci che cosa fare perché probabilmente lo leggiamo come un inizio a cui rispondere e non come una fine che implica che quella è già una risposta a qualcosa. L’ho vissuto ovviamente molto male in termini di rapporto con la morte, perché tutte le morti sono tragiche.

MA: C’è una performance che ritiene più rappresentativa della sua idea di teatro o a cui si sente comunque particolarmente legato?

C: E’ difficile sceglierne una, anche perché sono tutti figli. In genere si pensa sempre che sia l’ultima. Io dire invece che la più rappresentativa è la prossima. Io mi sento molto legato alla prossima, intanto perché non la conosco e quindi sono innamorato ­ l’innamoramento di quando non conosci una cosa e ti sembra molto bella. Direi quindi la prossima, che sta nascendo in questo periodo e si intitola Paure; il finale di questa trilogia fra Kamikaze e Macerie; mi sento molto legato perché la vedo ancora molto bambina e indifesa, quindi ho voglia di coccolarla, carezzarla perché mi sembra piccina.

MP: Avete tra i vostri progetti quello di collaborare ancora con la poetessa Chiara Guarducci?

C: Noi abbiamo fatto delle cose con Chiara, anche se non in modo diretto. Non vedo perché no, non abbiamo una collaborazione precisa.

LM: Com’è nato lo spettacolo Girotondo su Nazim Hikmet, come si è sviluppato? Mi ha colpito molto…

C: Lo spettacolo Girotondo su Nazim Hikmet era quello in cui gli spettatori si levavano le scarpe e partecipavano seduti su questi cuscini, su questi tappeti. Hikmet è un poeta turco, che ha passato un sacco di disgrazie in quanto poeta turco comunista. Ho voluto realizzare questo spettacolo due anni fa perché quest’uomo pieno di problemi ha nei suoi versi una grande leggerezza, una grande gioia di vivere, che mi sembra interessante perché oggi siamo in un mondo in cui molte persone apparentemente senza problemi hanno una grande pesantezza. Se guardi negli occhi i ragazzini dell’Afganistan, che non hanno di che mangiare, sorridono, mentre i nostri ragazzini che vanno nei supermercati intriscono. Hikmet poteva essere ­ ma può ancora essere ­ un momento interessante per far capire che la felicità è nelle piccole cose e nella speranza; se non hai più speranza non sei felice. Per avere speranza non è importante quanto hai dietro, quanto hai acquisito, ma è molto importante quanto pensi di avere davanti, quanto hai da vivere e da acquisire. Questo mi sembrava significativo, quindi l’ho voluto proporre perché mi sembra importante che le persone, in un momento di grande sconforto come quello attuale, vedano uno che ha passato veramente tanti guai nella sua vita, fino a rimetterci la pelle, e che pur quando stava per rimetterci la pelle aveva voglia di innamorarsi, di vivere, viaggiare, conoscere persone, vedere i colori, i pesci, il mare, l’acqua. Aveva voglia di vivere. È stato uno spettacolo per me sulla voglia di vivere. Mi sembra anche importante, perché non si possono affrontare solo temi come quello di Kamikaze ­ ossia un elettroshock per farti capire che sei di fronte ad un mondo che ti violenta. C’è anche la possibilità, mentre il mondo ti violenta, di avere voglia di vivere. In Hikmet c’è.

MA: E’ disposto a rivelarci qualche progetto per il futuro prossimo?

C: Vi rivelo il titolo, non il progetto, perché il progetto è ancora talmente in fasce con non so nemmeno di che sesso è. Non so molto di più, è in continuo cambiamento. Ho l’esigenza di un lavoro sulla paura, le paure che abbiamo quotidianamente e come possiamo superarle. Un teatro che si propone di consentire a chi è spettatore o a attore ­ perché secondo me non c’è una grande differenze nel nostro teatro; lo spettatore diventa dopo un po’ molto simile all’attore ­ supera il tutto e supera la paura. Naturalmente so che non è possibile, ma facendo teatro io lavoro sull’utopia. Non mi pongo il problema che una cosa sia concreta; deve essere vera.

Segreti di Pulcinella - © Tutti i diritti riservati