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E se per crescere si dovesse scendere?

 

"Il mio modello di crescita ha le radici nel cielo e immagina una graduale discesa verso le cose umane." Così scrive lo psicologo James Hillman nel libro "Il Codice dell'Anima" (edizione italiana: Adelphi, 1997). Secondo la tesi che l'autore chiama "teoria della ghianda", ogni potenzialità della nostra vita è in noi fin dalla nascita, basta ascoltare la chiamata della vocazione e trovare la forza di seguirla. Tale vocazione, che Hillman identifica col daimon (il genio personale, la nostra guida interiore), si manifesterebbe dalla più tenera età o in età avanzata, a seconda di quando siamo pronti a rispondere alla chiamata, e ci farebbe nascere nel luogo e famiglia ideali in cui realizzarci. Le condizioni avverse in cui si nasce, i conflitti familiari, i traumi dell'infanzia, sarebbero prove e stimoli necessari per prepararci a seguire la vocazione e diventare noi stessi, quello che dovevamo essere. Il problema, per Hillman, è che il daimon ci guida nel mondo ma senza curarsi dei bisogni corporei, dei pericoli e conseguenze a cui si va incontro. Da bambini ci si può ancora sottrarre alla realtà, vivere negli spazi rarefatti e impalpabili della fantasia, seguire in parte l'ispirazione del daimon giocando senza rischi. I problemi, come ci dirà ogni psicologo, arrivano con l'adolescenza; il problema è crescere, su questo non ci sono molti dubbi.
La particolarità della teoria di Hillman è che, per lui, l'idea ascensionale ed evoluzionistica secondo cui la crescita si svolge verso l'alto (da cui il mito dell'Uomo che si eleva, si evolve dai livelli inferiori, progredisce nel successo, sale nella scala sociale) è un'idea errata. Sostiene invece che la parte fondamentale della crescita si svolge verso il basso e consiste nel fatto che il nostro spirito, venuto idealmente dall'alto, deve discendere ed immergersi sempre più nel mondo, in necessità fisiche, in cose umili e modeste, in un corpo che cambia, in relazioni e rapporti con altri, nell'idea di dover invecchiare e morire. Come esempi simbolici e indizi, cita il mito platonico di Er, in cui le anime si scelgono la vita per poi discendere a incarnarsi, e l'Albero della Vita cabalistico della tradizione mistica ebraica, in cui la dimensione spirituale, suddivisa in dieci sfere, si manifesta sviluppandosi dall'alto e discendendo sempre più in basso fino al mondo materiale.
Un tale rovesciamento è interessante per tutto ciò che comporta; innanzitutto il mito mediorientale della caduta andrebbe interpretato in modo ben diverso. Non saremmo stati scacciati dal Cielo, o dal Paradiso, dall'ingenua figura adirata di un dio vendicativo per una qualche discutibile colpa collettiva. La caduta rappresenterebbe semplicemente la nostra nascita, la nostra discesa nel mondo in cui realizzarci, il necessario inizio della nostra crescita verso il basso. L'idea che si tratti di una caduta sarebbe un'errata interpretazione, dovuta alle difficoltà e frustrazioni incontrate nel crescere, nell'armonizzare le nostre aspirazioni ideali coi limiti del mondo concreto.
Nella versione babilonese del mito della caduta, la più antica, l'eroe Adapa è invitato in Cielo, dove gli è offerto il cibo della Vita eterna, ma, su consiglio del dio-serpente Ea, lo rifiuta e si condanna da solo a tornare sulla Terra da mortale, cioè a vivere realmente, a crescere nel mondo concreto invece di restare in alto, nel mondo delle idee, in un'eternità priva di crescita. È facile travisare il mito pensando a un subdolo inganno degli dèi, qui però si tratta di una scelta dell'Uomo, non di una punizione divina. Messe così le cose, il Serpente non sarebbe più il cattivo della storia, anzi diventerebbe, come in tante altre culture, un simbolo della crescita.
Infatti, in Mesopotamia come in India, in Estremo Oriente come nell'Africa Nera, il Serpente è di volta in volta il dio della conoscenza e della saggezza, il signore dell'Albero della Verità, il custode dei segreti e dei tesori nascosti, il drago alle radici dell'Albero della Vita, l'energia potenziale alla base del nostro essere, il fuoco interno che provoca terremoti e sconvolgimenti, il re delle acque sotterranee pronte ad emergere e delle acque celesti pronte a riversarsi sulla Terra, il fiume sacro dell'esistenza che discende in basso, il ciclo del tempo infinito che scorre e ci trascina con sé, il dio del mutamento e della resurrezione che cambia pelle, la fine della Vita seguita dal suo eterno ritorno, il frutto della sessualità che siamo invitati a cogliere, il potere di distinguere tra gli opposti e guarire interiormente attraverso la loro armonia (come nei serpenti intrecciati del caduceo di Ermes e di Esculapio, o nell'analoga unione degli dèi-serpenti cinesi Fu-Xi e Nu-Wa, che stilizzata diventa il simbolo dello Yin e dello Yang), tutti concetti interpretabili come momenti e fasi della crescita.
Anche Eva, dea-madre dell'Umanità, non avrebbe più la colpa di aver corrotto Adamo, ma la forza e il merito di averlo spinto a crescere, di farlo scendere ad affrontare il mondo come molte donne fanno coi loro uomini, e ciò rovescia l'ottica in cui è vista la Donna, che ancora subisce gli effetti di troppi miti maschili discriminatori.
La versione greca di Eva, la dea della gioventù Ebe, coppiera degli dèi, sembra fare il contrario: il nettare che offre, come il cibo offerto ad Adapa, fa restare giovani, dà la Vita eterna, fa rimanere nell'Olimpo. Ma, poiché la coppa è anche il sesso femminile e il serpente il sesso maschile, questo può riferirsi a ciò che uomini e donne provano unendosi: la sensazione di tornare in alto, dove gli opposti non erano separati e non c'erano conflitti.
La vita di Adamo ed Eva nel mondo della crescita e dell'esperienza fisica, non sarebbe stata insomma poi così dolorosa come vorrebbero farci credere. Anche Ulisse, tentato prima da Circe e poi dalla ninfa Calipso, che gli offrono di renderlo un dio se rimane con loro nel mondo della fantasia, rifiuta e preferisce tornare in basso ad affrontare il mondo reale, tornare da una donna vera, anche se vuol dire correre rischi, per poi invecchiare e morire. La vera tentazione, qui come nel mito di Adapa, è non crescere più e restare in paradiso per sempre.
Ma che succede se si accetta l'offerta degli dèi, se si sceglie di restare in alto e non crescere? Se ci va male, ciò che accade nelle leggende di chi è rapito dalle fate e poi ritorna in un mondo reale che non riconosce più, improvvisamente invecchiato. Se si è fortunati, quello che capita alla Bella Addormentata o a Biancaneve, che, impreparate a gestire la propria crescita, cadono in catalessi, per risvegliarsi alla vita e alla sessualità quando sono pronte. Non a caso Rosaspina cade addormentata in cima a una torre e Biancaneve è esposta in una bara su un monte; monti e torri, oltre che simboli fallici, sono luoghi distanti dal mondo della crescita in basso.
Infatti, come spiega lo psicologo Bruno Bettelheim nel libro "Il Mondo Incantato" (edizione italiana: Feltrinelli, 1977), tutte le fiabe rappresentano fasi della crescita: lo scontro col mondo dei giganti, cioè degli adulti; l'incontro con chi è mutato in animale, cioè la scoperta della sessualità; l'aiuto di esseri fatati, cioè delle nostre vocazioni che ci guidano; il dover sfuggire a streghe e orchi per ottenere tesori, cioè superare paure e affrontare rischi per avere risultati; tali fantasie non sono inutili, dice Bettelheim. Vivendole come in sogno, i bambini acquistano sicurezza e si sentono in grado di rapportarsi meglio anche al mondo concreto degli adulti. Il concetto è espresso in fiabe come Jack e il fagiolo magico, in cui un ragazzo porta giù, da sopra le nuvole, dei tesori con cui si appresta ad affrontare la vita sulla Terra. Anche qui, per crescere si discende in basso.
Nelle fiabe, tesori e ricchezze, così come conquistare un regno, rappresentano conquiste interiori, non scalate al successo. Anche il fatto che i protagonisti all'inizio siano sempre personaggi umili, bistrattati ed emarginati, che è come i bambini spesso si sentono trattati, rientra nel senso di inadeguatezza che prova chi comincia a crescere, discendendo in un mondo di limiti, costrizioni e pregiudizi, molto al di sotto delle proprie aspirazioni, come Alice che scende nella tana del coniglio cambiando statura, o il piccolo Soldatino di Stagno che cade dalla finestra e poi nelle fogne. Si tratta di trovare in sé la forza di affrontare e domare il drago, cioè di riuscire ad usare le proprie doti e vocazioni per padroneggiare la propria crescita, il fiume che ci porta inevitabilmente in basso. Allora forse chi pareva un brutto anatroccolo in balia delle onde, scoprirà di essere in realtà un cigno.
Ma se la crescita è come un fiume che discende, i nostri timori ed insicurezze vi possono vedere anche delle fauci minacciose. In molte storie, essere inghiottiti da un pesce o da un drago prelude a una sorta di rinascita nel momento in cui si viene vomitati, come un'esperienza traumatica in cui muore una parte di noi, portando a una crescita interiore. In varie culture tribali, simili traumi simbolici erano evocati in cerimonie d'iniziazione con cui i giovani entravano nell'età virile. Allo stesso modo Pinocchio, che in quanto burattino non può crescere, una volta uscito dalla pancia del Pescecane muta in un bambino vero, che solo ora potrà diventare adulto. Essere fatto di legno corrispondeva evidentemente ad un rifiuto di crescere, più o meno inconscio.
Un analogo blocco può essere rappresentato da quei miti, diffusi in tutto il mondo, in cui il grande serpente trattiene in sé le acque, ovvero il naturale corso delle cose si è interrotto, il fiume è come prosciugato. Allora deve intervenire un dio o un eroe che colpisce o uccide il drago e le piogge scendono di nuovo giù, cioè serve uno shock improvviso che liberi di nuovo il potere della crescita, la prosecuzione della Vita verso il basso.
Ma il caso più irreversibile di crescita sospesa, tanto da dare nome a una sindrome, è Peter Pan. Il suo autore, James Matthew Barrie, immagina che tutti i bimbi prima di nascere fossero uccelli e che crescendo perdano la capacità di volare. Anche per lui, si nasce dall'alto e per crescere si deve discendere in basso. Peter Pan si rifiuta, e, prima di dimenticare come si vola, fugge via. Non crescerà più e potrà seguire il suo estro, volando al di sopra dei problemi di ogni giorno, ma si scorda di continuo ogni sua esperienza e ogni suo impegno, quindi non impara mai nulla, è incostante in tutto ed esageratamente fiducioso in sé stesso e negli altri, perché non avendo memoria è come se non avesse mai subito delusioni. Nella sua storia, esplicitamente dedicata al tema della crescita, si trovano varie metafore interessanti, a cominciare dall'ombra.
In molte culture l'ombra rappresenta l'anima, ma anche il doppio, cioè il daimon, il genio che ci guida e che in qualche modo, attraverso l'ombra, si proietta su un mondo materiale a cui non appartiene. Quando Peter Pan scende sulla Terra è l'ombra che rimane indietro e che lui torna a cercare, come se una parte di lui cercasse di trattenerlo giù, dove si rifiuta di andare. Solo così potrà incontrare una ragazza, o, come dirà lui stesso, una sostituta della figura materna, qualcuno da amare insomma, in modo più o meno edipico. Pur volendo giocare con lei, non sarà però disposto ad abbandonarsi a dei veri sentimenti e ad assumersi delle responsabilità.
È significativo anche che ci siano le sirene, benché diverse da quelle di Ulisse. Quelle greche sono alate, cioè stanno in alto, ma sono figlie di Acheloo, dio-serpente identificato con un fiume, quindi rientrano nella crescita di chi si dirige in basso, verso la vita. Infatti il loro canto alleggerisce la dipartita alle anime, cioè fa accettare l'idea che infine si deve morire. Il rischio corso da Ulisse è di farsi incantare e seguirle prima del tempo, cioè di arrendersi al desiderio di morire mentre è ancora vivo. Anche le sirene nordiche dalla coda di pesce spingono al suicidio, come certe fasi attraversate da molti adolescenti che crescono. In tali casi conviene imitare la nave di Ulisse e tirar dritto senza ascoltare. Ignorate ripetutamente, le sirene greche si gettano in mare e diventano scogli, ovvero, una volta superate si vedono per ciò che sono: scogli lungo il cammino della crescita.
Infatti, proprio il desiderio di vedere le sirene spinge Wendy a seguire Peter Pan nell'Isola che non c'è. Anche Peter, nel solo momento in cui rischia davvero di perdere la vita, è su uno scoglio e sente la voce delle sirene, ma avendo già rinunciato a crescere non lo attirano e la sua paura dura solo un attimo. Per lui perfino la morte è un'avventura; neanche la sua minaccia lo spinge a cambiare. Perciò non teme e non affronta neppure il coccodrillo che ha inghiottito un orologio, buffa metafora del tempo che ci tallona senza tregua, che qui prende il posto di simboli come il drago e il fiume. La sua vittima designata, Capitan Uncino, viene divorata solo dopo che l'orologio si ferma, cioè quando il tempo è scaduto. Quanto a Peter Pan, il tempo che spinge a crescere e vivere prima che sia tardi, non lo riguarda; non ci pensa neanche a farsi inghiottire e vomitare per diventare grande. Però anche lui, quando capisce che l'orologio non ticchetta più, prova un attimo di paura "misteriosa".
Ma in Peter Pan la vera protagonista è Wendy, che è quasi una adolescente e, per quanto indulga a volare sull'Isola che non c'è, alla fine accetta di crescere, portando anche gli altri bimbi giù con sé sulla Terra, l'unico luogo in cui si può vivere veramente, per quanto difficile sia, se solo ci si rende conto che in fondo anche la vita potrebbe essere "una straordinaria avventura", come Peter Pan avrebbe potuto dire ma non dirà mai.
Non a caso ha il nome del dio greco Pan, che rappresenta gli istinti più incontrollati e irresponsabili. Ma Pan è un dio che si abbandona al godimento dopo esser sceso in basso, sulla Terra, nella materia e nella sensualità. Peter Pan invece resta per sempre in alto, tra le fate. Il suo è l'identikit ideale di come sarebbe un vero spirito trascendente, una divinità che gioca all'essere infallibile al di sopra del mondo e non sa nulla della realtà, un dio-bambino che resta tale ostinandosi a starsene sospeso in cielo, ma che ogni tanto ha bisogno di calare in basso, per illudersi di trovare qualcuno da amare e da cui essere amato. Da qui forse l'esigenza di molti dèi di scendere a incarnarsi sulla Terra, non tanto per salvare l'Umanità, visto che non c'è alcuna colpa primordiale, ma per la soddisfazione di crescere, maturare e imparare faticosamente a vivere, come tutti tentiamo di fare.

Andrea Cantucci

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