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Libri a fumetti

LA SINDROME DEL CRONONAUTA
Cronistoria dei viaggi nel tempo a fumetti

Articolo di Andrea Cantucci

Cinema

Jane Eyre
di Lorenzo Spurio
Melancholia
di Mario Gardini
Il re leone
di Mario Gardini
One day
di Mario Gardini

Pop art

Fra Biancoshock: un umile artigiano non artista di "Esperienze" non descrivibili
di Alessandro Rizzo

Busker

"Eroe? Macchè... chiamatemi Soltanto busker"
di Alessandro Rizzo

Fotografia

Matteo Alvazzi: un pianista dedito alla fotografia urbana
Intervista a cura di Alessandro Rizzo

Miti mutanti 14

Strisce di Andrea Cantucci

In questo numero segnaliamo...


 



Jane Eyre (2011)
Regia di Cary Fukunaga
Paese: Regno Unito / Usa

Recensione di Lorenzo Spurio

Da grande estimatore e studioso di Jane Eyre, romanzo vittoriano pubblicato nel lontano 1847 da Charlotte Brontë, non mi sono perso il nuovo adattamento cinematografico che ne è stato tratto. Il film porta l'omonimo titolo del romanzo ed è firmato dalla regia di Cary Fukunaga; tra gli attori principali figurano MiaWasikowska (Jane Eyre), Michael Fassbender (Mr. Rochester), Jamie Bell (St. John Rivers) e Judi Dench (Mrs. Fairfax).
La sala di proiezione era quasi totalmente desolata, al massimo dieci persone e l'età media di certo non era inferiore ai 60-65 anni. Non c'è da meravigliarsi. Quasi nessuno legge più il romanzo, figurarsi la gente che va a vedere un film tratto da una storia che non conosce. Inutile dire che vedendo il film il mio metro di giudizio, inconsciamente o forse no, è stato portato a raffrontare il film con l'altro adattamento cinematografico che ne venne tratto nel 1996 per la regia di Franco Zeffirelli. Dirò da subito che, tra i due, ho preferito la versione di Zeffirelli per vari motivi che cercherò di spiegare ma un giudizio di questo tipo è semplicistico. Si deve, infatti, considerare il nuovo film per quello che è e, magari, rapportarlo al romanzo e non a un film precedente.
Entrambi i film sono molto fedeli al romanzo della Brontë e quindi possono eventualmente essere impiegati come materiale didattico accessorio nel caso di una divulgazione o di uno studio attento sul romanzo. La novità del film di Fukunaga rispetto a quello di Zeffirelli è che non rispetta il normale svolgimento della storia e quindi il canonico susseguirsi degli spazi (Gateshead Hall, Lowood, Thornefield Hall, Moor House, Ferndean Manor). Il film si apre, infatti, con Jane, ormai grande, che scappa da Thornefield e corre, sola e sofferente, per la brughiera per arrivare poi, sfinita e piangente, a Moor House. Lì viene accudita e lentamente si riprende dal suo stato; St. John Rivers le offre di lavorare in una piccola scuola di villaggio per bambine. Tramite un sistema di retrospezioni, flashback e ricordi, veniamo a conoscenza del passato di Jane: prima la sua infanzia difficile a Gateshead con l'importane episodio della red room, poi Lowood (e l'amicizia con Helen Burns) e, infine, tutta la parte concernete gli episodi di Thornefield sino alla sua fuga nella brughiera che poi si ricollega alla storia ufficiale, con il rifiuto di Jane di seguire St. John Rivers in missione in India e il richiamo di Rochester. Fukunaga stravolge il canonico susseguirsi delle fasi di crescita interiore ed esteriore di Jane per creare una trama più avvolgente e intricata, in cui forse la comprensione può essere un pizzico più difficoltosa di quella del film di Zeffirelli dove lo spettatore segue, invece, progressivamente e secondo un principio fondato sulla cronologia, i vari episodi della vita della protagonista.

Alcune mie personali considerazioni:
- Di Jane Eyre nel romanzo si sottolinea spesso il fatto che non rappresenti una bellezza femminile particolarmente attraente, che è magra, mingherlina, dal viso pallido e dai capelli scuri, descrizione perfettamente in linea con l'immagine dell'allora giovanissima attrice francese Charlotte Gainsbourg che nel film di Zeffirelli interpretava Jane Eyre. Nel film di Fukunaga, invece, Jane, a mio modo di vedere, è una bellissima ragazza interpretata dall'attrice Mia Wasikowska (celebre anche per il personaggio di Alice in Alice nel paese nelle meraviglie per la regia di Tim Burton). L'attrice è bionda o, almeno, castano chiaro e ha gli occhi celesti, aspetto completamente diverso da quello di Jane nella Brontë. Di contro, Blanche Ingram che nel romanzo viene detto esser bionda (com'è anche nel film di Zeffirelli dove si sottolinea la frivolezza e l'ignoranza del personaggio) nel film di Fukunaga ha i capelli neri.
- Gli interni di Thornefield Hall nel film di Zeffirelli sembrano molto più sfarzosi e degni dell'aristocrazia inglese mentre Thornefield Hall nel film di Fukunaga sembra un po' meno lussuoso tanto che la stessa Jane riconosce che la residenza della zia a Gateshead era di gran lunga più bella.
- Mancano nel film di Fukunaga i personaggi di Bessie, la governante di Jane (che viene solo nominata una volta) e della caritatevole Miss Temple, istitutrice a Lowood.
- Nel film di Fukunaga Mrs. Fairfax rivela a Jane che non sapeva niente dell'esistenza della prima moglie del signor Rochester, mentre nel romanzo la governante era a conoscenza di tutto.
- Nel finale del film di Fukunaga non è un anziano della zona, come nel romanzo, a rivelare a Jane che Thornefield Hall è andato a fuoco e che il padrone è rimasto ferito ma è lei stessa che entra nel castello ormai annerito e in macerie e trova Mrs. Fairfax forse lì giunta per recuperare qualcosa del vecchio castello.
- Nel film di Fukunaga, Mr. Rochester perde la vista ma non soffre l'amputazione di un arto a seguito del crollo del castello. Il film si chiude con la coppia che si scambia il proprio amore. Ferndean Manor, la nuova residenza, non viene mai nominata. Non vediamo la coppia avere dei figli, né tantomeno Rochester riacquistare la vista.
- I personaggi meglio costruiti e più fedeli alle descrizioni della Brontë sono Mrs. Fairfax, Helen Burns e Brocklehurst (al quale tuttavia viene dato più spazio nel film di Zeffirelli). Pochissima attenzione viene riservata invece a Grace Poole (personaggio molto importante) e a Bertha Mason. Quest'ultima viene mostrata solo una volta, nella scena in cui Rochester, dopo il matrimonio negato, fa vedere a Jane, al legale e al fratello di Bertha, chi è sua moglie. Bertha non ha sembianze animalesche (non fa dei versi) né tantomeno selvagge ed è, invece, raffigurata come una donna addirittura attraente. Poco spazio viene riservato però a questo personaggio, ad esempio l'episodio del velo nunziale rotto da parte di Bertha è completamente assente.
- Una signora seduta a vedere il film qualche fila dietro della mia quando ha visto Bertha ha detto ad alta voce "la matta" con un fare offensivo e denigratorio, per marchiarla o etichettarla come degenerata, perversa. Le avrei detto con molto piacere che l'origine della sua pazzia era proprio il signor Rochester e che lei era stata sradicata dalla sua terra, mercificata e tenuta in schiavitù. Avrei, insomma, cercato di farle capire che, forse, era errato e fuorviante vedere Bertha come il marchio del Male, come una sorta di Satana, solo perché il motivo dell'inghippo del matrimonio tra Rochester e Jane. Avrei voluto dirle di leggersi Il gran mare dei Sargassi della Rhys, tanto per farsene un'idea. In questo, nella creazione del personaggio di Bertha, in effetti, la Brontë è stata marcatamente etnocentrica, istituendo una significativa discriminazione razziale, come ho anche avuto modo di sottolineare nella mia raccolta di saggi: Jane Eyre, una rilettura contemporanea, Lulu Edizioni, 2011, pp. 101, ISBN: 9781447794325).
- Richard Mason, fratello di Bertha, che viene dalla Jamaica, contrariamente a quanto narra la Brontë (e contrariamente all'adattamento di Zeffirelli), non ha una carnagione scura in quanto esponente della componente creola dell'isola ma ha una carnagione molto chiara.
- St. John Rivers e le sue sorelle, che nel romanzo poi scoprono di essere cugini di Jane, nel film di Fukunaga rimangono suoi amici, senza vincoli di parentela, con i quali decide però di dividere equamente la sua eredità ottenuta con la morte dello zio John Eyre di Madeira.
Un buon film che consiglio a tutti coloro che conoscono il romanzo e ne apprezzano le qualità. La realizzazione di Zeffirelli resta, secondo me, la migliore in assoluto per una serie di elementi che ho cercato di tratteggiare e anche per la prestigiosa e azzeccatissima presenza di William Hurt nelle vesti di Rochester, che appare più interessante, più aristocratico, più austero e romantico, più inglese, più brontiano.

LORENZO SPURIO
10-09-2011

* * *

IL RE LEONE 3D
di Roger Allers, Rob Minkoff
USA - 1994


Quando uscì, nel lontano 1994, "Il re leone" rappresentò un'autentica scommessa per la Disney. Reduce da un glorioso ritorno agli antichi fasti grazie a film come "La sirenetta", "La bella e la bestia" e "Alladin", la casa madre di Topolino si trovò di fronte ad un film molto più complesso che abbinava le atmosfere da musical all'antica tragedia in stile Shakespeare.
Jeffrey Katzenzberg, che ai tempi supervisionava tutti i cartoni animati della Disney, pare che disse "Se con questo film portiamo a casa 50 milioni di dollari, possiamo considerarci fortunati". A tutt'oggi, "Il re leone" ha guadagnato nel mondo più di 930 milioni di dollari, diventando il cartone animato in 2D più visto della storia.
Purtroppo questo film rappresentò anche l'inizio della discesa dell'impero Disney. Katzenberg, non sentendosi sufficientemente apprezzato in casa Disney, mollò tutto e fondò la Dreamworks con Steven Spielberg e David Geffen.
I cartoni animati Disney degli anni successivi non sfiorarono minimamente il successo de "Il re leone", almeno fino all'avvento dell'epoca Pixar, grazie a successi planetari come "Alla ricerca di Nemo" e "Toy story 3".

La trama de "Il re leone" è ormai celeberrima.
Simba è figlio di Mufasa, il re della foresta. La sua nascita soffia il trono al perfido Scar, fratello di Mufasa, il quale decide di commettere fratricidio con l'aiuto di tre iene (i personaggi più simpatici del film).
Raggiunto lo scopo, Scar riempie il piccolo Simba di sensi di colpa e lo spinge a fuggire via dal regno.
Simba sopravvive grazie all'aiuto di due amici, un suricato e un facocero, fino a quando tutta una serie di eventi lo spingono a tornare a casa, affrontare lo zio, sposare l'amica d'infanzia e riprendere il suo posto all'interno del cerchio della vita.

I riferimenti all'Amleto sono forti, ma il film è anche un bellissimo invito a combattere per se stessi e per superare i traumi che bloccano la nostra naturale evoluzione.
Uno dei maggiori punti di forza del film fu la colonna sonora, ad opera di Elton John e Tim Rice, la quale vendette solo negli Stati Uniti più di dieci milioni di copie e vinse due premi Oscar.
In Italia Mufasa fu doppiato da Vittorio Gassman mentre in America la iena Shenzi era un'irresistibile Whoopi Goldberg.
Ora il film è stato rifatto in 3D.
L'idea in America era quello di rimetterlo nelle sale solo per due settimane, più per promuovere il lancio del DVD che per altri scopi di marketing.
Ma, visto il successo, le due settimane iniziali sono aumentate e "Il re leone" si è portato a casa altri 90 milioni di dollari.
L'effetto 3D non è eccezionale, proprio per il fatto che ai tempi il film non era stato realizzato con le apposite tecniche, ma alcune inquadrature, come quelle del volo degli aironi all'inizio, sono davvero emozionanti.
Comunque sia, è sempre un piacere rivedere questo film. Fa ridere, piangere, coinvolge con i suoi simpaticissimi personaggi e con alcune tra le migliori canzoni mai sentite in un musical Disney.
Inoltre potrebbe essere il capostipite di tutta una serie di classici rivisitati in 3D.
Sarebbe bello poter ammirare sul grande schermo, con tanto di occhialini, film come "La carica dei 101", "Gli aristogatti" o "Lilli e il vagabondo".
Ma anche gioielli più recenti, tipo "Mulan" o "Lilo e Stitch".
Ad ogni modo, quando tutto va male, ripetete a mo' di mantra "Hakuna matata".
Magari funziona!


Mario Gardini

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MELANCHOLIA
di Lars von Trier
con Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland
2011 - Danimarca Svezia Francia, Germania


Che Lars von Trier sia un regista polemico, eccessivo e a tratti anche scomodo, è fuori discussione. Che però non sempre la sua fama sia all'altezza del suo talento, anche questo è, a mio modesto avviso, un altro dato di fatto.
Del regista ho amato, otto anni fa, il particolarissimo "Dogville", ma dopo di allora non sono più riuscito a trovare quel lampo di geniale follia che aveva contraddistinto il film senza scenografia con Nicole Kidman.
Il regista non nutre alcuna speranza nei confronti del genere umano e del futuro del nostro pianeta. Però questo non lo autorizza di certo a rilasciare interviste come quella fatta all'ultimo Festival di Cannes in cui simpatizzava con Hitler, guadagnandosi l'espulsione dalla Croisette in qualità di "persona non gradita".
"Melancholia" prosegue il cammino iniziato nel 2009 con "Antichrist", di cui si porta dietro la protagonista Charlotte Gainsbourg.
Dialoghi, situazioni, personaggi sono tutti al di sopra delle righe. Anche il modo di girare è particolare, fatto apposta per generare nello spettatore un senso di fastidio visivo.
Io, per esempio, ho dovuto guardare mezzo film ad occhi chiusi per sopportare il senso di nausea che mi generavano sia i colori che i movimenti della macchina da presa.

La storia è semplice e si divide in due parti.
La prima si intitola "Justine" e racconta del matrimonio di questa ragazza (Kirsten Dunst) nella suntuosa villa del cognato (Kiefer Sutherland).
Nonostante i tentativi della sorella (Charlotte Gainsbourg) di rendere tutto perfetto, Justine è apatica e infelice. Che sia di colpa di Melancholia, pianeta azzurro che si sta avvicinando alla Terra in maniera preoccupante?
La famiglia intorno di certo non aiuta, a cominciare da una madre egoista (Charlotte Rampling) fino a un padre puttaniere (John Hurt).
Justine, nella sua infelicità, tradisce subito la prima notte di nozze il bel marito premuroso il quale, alla fine della cerimonia, deciderà di andarsene, lasciando la ragazza in uno stato di atarassia.
La seconda parte del film si intitola "Claire" e dà più rilievo alla figura della sorella.
Prigioniera in una gabbia dorata fatta di agi e poche certezze, ha un figlio piccolo e continua ad informarsi su internet riguardo a Melancholia.
Terrorizzata dall'imminente fine del mondo, fa scorta di medicinali per un eventuale suicidio in caso di disastro planetario.
A nulla servono le rassicurazioni del marito: mentre Justine, ormai ospite fissa nella villa, affronta l'ineluttabile destino con distaccato cinismo, Claire trepida, piange, s'illude.
Finché alla fine, davanti al cadavere del marito che ha usato i suoi tranquillanti per uccidersi, decide di reagire. Insieme alla sorella e la figlio, costruisce un piccolo rifugio con i rami degli alberi e lì, uniti in cerchio, i tre attendono l'impatto finale.

Lars von Trier dà la sua personale visione del 2012.
A noi poveri spettatori, provati dalla durata del film e dalle inquadrature mosse, non resta che toccarci e cantare come Caparezza "Goodbye Malinconia".
Kirsten Dunst, premio come miglior attrice al Festival di Cannes, si dà un gran da fare per passare dalla depressione alla catatonia, accettando pure di sdraiarsi tutta nuda in un bosco di notte, mentre Kiefer Sutherland cerca di rifarsi una verginità cinematografica dopo essere stato Jack Bauer per le otto stagioni televisive di "24".
Ma la più brava di tutti è Charlotte Gainsbourg, sempre più simile a sua madre Jane Birkin, attrice e cantante che, nel lontano 1969, fece scandalo interpretando il brano "Je t'aime… moi non plus" insieme a Serge Gainsbourg (suo compagno di allora e futuro padre di Charlotte).
Papa Paolo VI giunse addirittura a scomunicarne autori, interpreti e produttori.
Ma era più facile prendersela con una canzone che affrontare i preti pedofili americani.


Mario Gardini

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ONE DAY
di Lone Scherfig
con Anne hathaway, Jim Sturgess, Patricia Clarkson, Rafe Spall
Gran Bretagna - 2011


Il libro di David Nicholls è stato un buon successo anche in Italia edito da Neri Pozza grazie al passaparola che l'ha fatto diventare, in breve tempo, un buon argomento da salotto per signore.
Infatti il romanticismo della trama attrae maggiormente un target femminile anche se, personalmente, ne ho apprezzato il sense of humor e la capacità di saper tenere un perfetto equilibrio tra dramma e commedia.
Logicamente non poteva mancare la trasposizione cinematografica ad opera di Lone Scherfig, una regista danese che si fece notare un paio di anni fa per l'interessante "An education" sceneggiato dallo scrittore Nick Hornby (Alta fedeltà, About a boy).
La trama richiama un po' "Lo stesso giorno, il prossimo anno", una piece teatrale di Bernard Slade che fu già portata sullo schermo nel 1978 da Robert Mulligan e che in Italia è stata a più riprese portata in teatro da attori come Enrico Maria Salerno, Giovanna Ralli, Marco Columbro e Maria Amelia Monti.

Rispetto al libro, mancano certe profondità caratteriali.
Però chi non lo ha letto non potrà fare a meno di parteggiare per i due giovani protagonisti che, dopo essersi incontrati una singola notte festeggiando così la loro laurea, si inseguono per vent'anni di vita, incontrandosi sempre il 15 luglio, dal 1988 in poi.
Emma (Anne Hathaway) è bella, ribelle, arriva da Edimburgo e vuole conquistare Londra con i suoi libri, anche se poi finirà per trovarsi a lungo incastrata in un ristorante messicano con un fidanzato aspirante comico; Dexter (Jim Sturgess) è ricco, affascinante, viziato e disattende le attese della famiglia diventando il conduttore televisivo di una trasmissione trash.
Alcol e droghe bloccheranno la sua ascesa e faranno franare il suo matrimonio mentre Emma, finalmente libera dai vicoli di una relazione che non aveva alcun senso di esistere, riuscirà a coronare il suo sogno di diventare una scrittrice per bambini.
Ciò la porterà a Parigi dove Dexter la raggiungerà e, finalmente, dopo anni di incontri, scontri, inseguimenti e notti "one shot", i due capiranno ciò che noi spettatori abbiamo già capito dalla prima inquadratura del film: che i due sono innamorati pazzi l'uno dell'altra.
Niente "happy end" per questa storia d'amore poco convenzionale. Ciò che il destino regala, se lo riprende con gli interessi. Rimane solo il conforto della memoria, perché non tutti a questo mondo hanno il privilegio di avere un grande amore da ricordare.

Anne Hathaway è, come sempre, bella e brava. Jim Sturgess, che già ci era piaciuto in "Across the universe" e "21", è perfetto per la parte e diventa sempre più sexy man mano che il trucco cinematografico lascia i segni del tempo sul suo viso.
Ma le figure più belle del film sono due: la mamma di Dexter (Patricia Clarkson), capace di amare e non giudicare il figlio anche nei suoi fallimenti, e Ian (Rafe Spall), perdutamente innamorato di Emma e infelicemente consapevole di essere condannato al ruolo di eterno secondo.
La colonna sonora spazia da Tracy Chapman agli Snap! e Robbie Williams mentre sullo schermo vediamo trascorrere i migliori anni della nostra vita con un misto di tenerezza e di rimpianto.
Il monito del film è sempre quello del "Carpe diem" di Orazio: godiamoci ogni singolo giorno che la vita ci regala, senza accontentarci di essere felici solo una volta ogni tanto.
Beato chi ci riesce!

Mario Gardini

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SISTER ACT IL MUSICAL
con Loretta Grace, Dora Romano, Laura Galigani
Teatro Nazionale - Milano


Quando uscì nel 1992, il film "Sister act" (in Italia stupidamente accompagnato dal sottotitolo "Una svitata in abito da suora") guadagnò in tutto il mondo circa 230 milioni di dollari.
Un risultato davvero straordinario se si pensa che era un film dal budget limitato che la Disney aveva pensato per Bette Midler la quale, invece, diede forfait a favore di "For the boys" che affossò la sua carriera di attrice.
Così il suo posto fu preso da Woophi Goldberg, che divenne nell'arco di un film la star di colore più pagata di Hollywood.

La trama è molto esile.
Deloris Van Cartier (la Goldberg) è una cantante di terz'ordine che si esibisce a Reno scimmiottando Diana Ross in un casinò di proprietà del suo amante mafioso.
Il giorno in cui vede il suo amante uccidere uno scagnozzo, Deloris diventa una testimone oculare che va protetta e tenuta nascosta fino all'inizio del processo.
Così la polizia la relega in un convento di monache prossimo alla chiusura per mancanza di fondi.
L'iniziale disperazione della cantante viene man mano placata dal calore delle consorelle, ignare della sua reale natura, alle quali Deloris insegna a cantare, trasformando il loro coro sgangherato in un'attrazione a livello nazionale. Peccato che, con la fama ed i soldi, arrivino anche i media e così la copertura di Deloris va (è proprio il caso di dirlo) a farsi benedire.
Boss e scagnozzi sbarcano al convento per farla fuori, ma dovranno vedersela con tutte le suore ben decise a salvare la nuova amica.
Gran finale con coro gospel scatenato alla presenza, nientepopodimeno, che del Santo Padre.

Il punto di forza del film erano le canzoni, tutte già famose negli anni 60 e 70, con i testi riadattati per diventare perfetti canti di chiesa.
Purtroppo, nel musical, tutte queste canzoni sono sparite e, al loro posto, è stata introdotta una colonna sonora di tutto rispetto firmata da Alan Menken (La sirenetta, La bella e la bestia, La piccola bottega degli orrori).
Però un pizzico di delusione rimane perché almeno "I will follow him" poteva essere salvata, magari come chiusura dello show.
Detto questo, il musical è divertente, con un ritmo incalzante e tante canzoni capaci di entrare nell'orecchio già al primo ascolto, tradotte in modo impeccabile da Franco Travaglio.
Gli attori sono tutti bravi e non fanno rimpiangere il cast del film.
Loretta Grace nei panni di Deloris sfodera una voce blues da fare paura mentre la Madre Superiore, che sullo schermo era l'eccezionale Maggie Smith, trova in Dora Romano il suo perfetto alter ego.
Anche Laura Galigani, nei panni si Suor Maria Roberta, non fa assolutamente rimpiangere l'originale Wendy Makkena.
Un applauso anche ai tre scagnozzi: il loro numero, in perfetto stile Bee Gees, è tra i più riusciti del musical.
Whoopi Goldberg è tra le produttrici di questo musical divino che mette le paillettes perfino sulla statua della Vergine Maria e che solo a Londra ha richiamato più di un milione di spettatori.
Nel finale anche un piccolo tributo alla mia amata Donna Summer. Chi non sa a memoria la sua "MacArthur Park", merita un anno di convento!


Mario Gardini

 

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