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Libri a fumetti

AMORI FRA LE NUVOLE
storia ragionata del fumetto sentimentale

Articolo di Andrea Cantucci

Cinema

L'aldilà secondo Eastwood
di Maria Antonietta Nardone
Il discorso del re
di Mario Gardini
Burlesque
di Mario Gardini
Amore e altri rimedi
di Mario Gardini

Pittura

Simone Ziffer: quando l'arte sonda le parti più intime dell'essere umano
Intervista a cura di Alessandro Rizzo
Un artista dalla forte venezianità: Luigi Fico
Intervista a cura di Alessandro Rizzo

Miti mutanti 11

Strisce di Andrea Cantucci

recensioni cinematografiche


 


L'aldilà secondo Eastwood

"Hereafter"
Clint Eastwood
(Quattro Fontane, 1)

Strano film quest'ultimo di Eastwood. Tre storie che scorrono ciascuna col proprio sviluppo, per poi convogliare alla fine in un sincronico punto di incontro, permettono al regista statunitense di affrontare il tema dei temi: cosa c'è dopo la morte? Dove porta questo passaggio? Che cosa avviene dopo, in quell'aldilà (hereafter) che dà inoltre il titolo alla pellicola? Essendo la morte, la grande rimozione di questi anni, grande è il coraggio nel decidere di fare un film interamente dedicato, appunto, alla morte, a chi la sfiora, a chi la subisce anzitempo, a chi, addirittura, ha il dono di riuscire a stabilire un contatto con i defunti, alzando così il velo di ipocrisia e di incontrollabile paura che circondano di solito questi temi. Ripeto: grande coraggio e grande libertà creativa. Eppure il film non mi sembra riuscito del tutto. Intendiamoci: ci sono sequenze straordinarie, come l'onda terribile dello tsunami del 2006, rielaborata al computer, che apre il film con una potenza visiva ed emotiva fortissima, assieme a quanto accade alla giornalista francese, a quello che vede e che prova, davvero splendido e arduo da proporre immaginativamente senza cadere nella trappola della banalità o del già visto, tuttavia qualcosa non torna.
Le tre storie che scorrono parallele prima di convergere vedono tre protagonisti: Marie (Cécile De France), un'affermata giornalista parigina, che dopo essere stata travolta dall'onda gigantesca che trascina tutto, case, vetture e individui in un'unica, spaventosa violenza, e, data ormai per morta dai suoi occasionali soccorritori, riprende a respirare e a 'vivere', portando con sé il sentore di un'esperienza che le cambierà totalmente la vita; George (Matt Damon), il sensitivo di San Francisco, che stanco e disperato del suo genuino dono di parlare con persone morte, volta le spalle ad una facile notorietà e al denaro che ne scaturisce, per lavorare come operaio in una fabbrica nel tentativo di costruirsi una vita e degli affetti tra i vivi; Marcus (George Mc Laren), un bambino londinese, figlio di una madre mentalmente assente perché eroinomane, è fratello gemello di Jason, il quale muore investito da una macchina, provocandogli un trauma che lo porta ad un quasi mutismo con i nuovi genitori affidatari e a un dolore che pare inconsolabile oltre che a un senso di colpa devastante (era lui che doveva andare in farmacia per prendere delle pasticche alla madre).
Questi tre sopravvissuti alla morte che li ha sfiorati, toccati o traumatizzati, rimanendo fedeli alla loro esperienza, perseguono tenacemente un loro obiettivo, che li porterà ad una liberazione finale, che se, da un lato, è finissima psicologicamente parlando, dall'altro, soprattutto nell'incontro finale, ha un po' dell'inverosimile. In questo percorso, Eastwood mostra varie opzioni sull'aldilà senza dare alcuna risposta. Ci sono elementi "che la ragione non coglie" (direbbe Leopardi), ma non per questo sono meno autentici e/o veri. È attento anche a smascherare tutto un mondo di ciarlatani che specula e guadagna sul dolore altrui, sull'ottusità di certi atei ("si spegne la luce, e tutto è finito"), sulla meccanicità di certe funzioni funerarie che si svolgono in chiesa, una dietro l'altra, con gelido pragmatismo. Qualcosa, tuttavia, nella struttura narrativa non funziona; certi passaggi si avvertono zoppicanti e farraginosi. Inoltre il concetto psicologico di sincronicità, spiegato superbamente da Jung, e che nel film viene applicato come destino nell'incontro e quasi riconoscimento finale dei tre protagonisti, all'inizio tra loro lontani e sconosciuti, mi pare un po' troppo semplificato per non dire banalizzato. Perciò sostengo che il film non sembra riuscito del tutto nonostante la sequenza memorabile dell'inizio e la bravura di Eastwood nel descrivere con pochi tratti certe incredibili durezze del vivere contemporaneo come ad esempio, su tutte, la copertura che i due figli gemelli danno alla propria madre, inerme, indifesa, persa nelle sue obnubilanti sostanze tossiche, facendo praticamente da genitori alla propria stessa madre (è uno dei momenti più toccanti e più illuminanti del film) oppure il freddo e vigliaccuccio cinismo con cui il regista televisivo, che ha una relazione con Marie, la scarica sia affettivamente sia professionalmente con grande disinvoltura o anche l'ansia di recuperare il cappello, che una folata di vento va volare via dalla testa di Marcus, con la macchina da presa posta bassa, ad altezza di bambino, sì da sostanziare un'angoscia crescente, presente nell'animo del piccolo. Lo sguardo del regista non giudica, ma sembra come ricoprire di un'umanissima pìetas e compassione (cum patior: soffrire con) i personaggi delle sue storie, che si dibattono sempre in situazioni molto sofferte e difficili.
Continuo a pensare che Clint Eastwood sia tra i più grandi narratori (viventi) per immagini, ma films come "Mistic river", "Million Dollar Baby" "Lettere da Iwo Jima" e "Gran Torino" sono di caratura superiore rispetto a questo pur interessante ma non compiutissimo né riuscitissimo, oltre che seriosissimo, "Hereafter".

Maria Antonietta Nardone

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IL DISCORSO DEL RE
di Tobe Hooper
con Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter


12 candidature all'Oscar ed un Golden Globe al protagonista Colin Firth non fanno di "Il discorso del re" quel capolavoro della cinematografia moderna che molti critici d'oltremare hanno millantato.
Certamente si tratta di un film intelligente e ben confezionato ma, fondamentalmente, molto più furbo che sentito.
Del resto va a toccare quelle corde facili che piacciono così tanto ai membri dell'Accademy: l'uomo che si trova alle prese con situazioni più grandi di lui, il valore dell'amicizia e della solidarietà, la capacità di vincere l'handicap grazie alla forza di volontà e alla presa di coscienza di se stessi.
La storia è semplice e vera. Il Principe Alberto, fratello del futuro Re d'Inghilterra, soffre di balbuzie. Il che non sarebbe un grande problema se suo fratello non decidesse un bel giorno di abdicare per amore della divorziata Wallis Simpson.
E così il povero Alberto si ritrova suo malgrado ad assurgere al trono nei panni di Re Giorgio VI°, mentre l'Inghilterra non dorme e dichiara guerra ad Hitler.
Urge trovare un logopedista, magari anche non laureto, per ovviare alle balbuzie del re.
Ci pensa la moglie Elisabetta, madre della futura Regina Elisabetta II e nonna del famoso Carletto che, tra Lady D e Camilla "vorrei essere il tuo tampax", darà un colpo ferale alla rispettabilità della corona.
E così entra in scena Lionel Logue, australiano trapiantato a Londra che si occupa di chi ha problemi nel parlare.
Il film naviga in superficie, non cerca motivazioni psicologiche ai disturbi del Re e accenna giusto a qualche trauma infantile legato ad un'educazione di stampo troppo rigido.
Invece punta molto sulla recitazione ineccepibile di un Colin Firth da Oscar, bravissimo nel saper tratteggiare la figura di un uomo che, per diritto di nascita, dovrebbe essere superiore agli altri ma che invece, dentro l'anima, si sente l'esatto contrario.
Anche il suo antagonista, Geoffrey Rush, è assolutamente perfetto nei panni del logopedista con l'aria alla Leonard Cohen e lo spirito irriverente.
Il finale del film è un mix perfetto di musica, parole, sguardi e pathos storico, con il discorso del Re che accompagna le truppe al fronte mentre l'ormai amico per sempre Logue gli fa da gobbo.
Ma la scena da tramandare ai posteri è molto più "british" e riguarda la moglie del logopedista la quale, ignara dei reali clienti del marito, torna a casa prima del dovuto e si ritrova seduta in cucina la Regina d'Inghilterra.

Mario Gardini

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BURLESQUE
di Steve Autin
con Cher, Christina Aguilera, Stanley Tucci

Probabilmente il regista Steve Antin pagherebbe oro pur di sentirsi definire un Bob Fosse dell'era videoclip, ma questo "Burlesque" ha molto più a vedere con un banale "Flashdance" di Adrian Lyne che con i capolavori musicali del grande regista/coreografo scomparso nel 1987.
La storia è trita e ritrita: Ali (Christina Aguilera), una ragazza che vive in una grigia provincia americana, molla il suo lavoro di cameriera e insegue il sogno di diventare una star nella grande Los Angeles.
Qui trova lavoro in un locale chiamato Burlesque grazie ad un cameriere non gay ma con un sacco di eyeliner sulle ciglia.
Tess, la padrona della melunera (interpretata da Cher), è oberata dai debiti e sta lottando per non vendere il suo amatissimo locale ad un ricco magnate del mattone che ne vuole fare un grattacielo con vista panoramica. Così non presta troppa attenzione alla ragazza e non le offre la grande occasione che l'ambiziosa fanciulla va cercando.
Però, grazie ad una ballerina alcolizzata ed invidiosa che le stacca la musica durante lo show, Ali potrà finalmente tirare fuori una voce della madonna (non nel senso di Louise Veronica Ciccone), far ricredere la sua boss e consacrare se stessa ed il locale al successo.
Tra un balletto ed un alterco sentimentale, si arriva sbadigliando all'happy ending con Ali che aiuta Tess a salvare il Burlesque con un escamotage legale e si impalma il suo bel cameriere divenuto, nel frattempo, songwriter.
La Aguilera canta bene ma recita male, assomigliando a tratti in modo quasi imbarazzante alla nostra Nancy Brilli.
Cher, al centoventesimo lifting, non ha mezza ruga ma nemmeno più un'espressione. Eppure, quando canta "You haven't seen tha last of me" mette a tacere la giovane antagonista e si porta a casa un meritatissimo Golden Globe per la miglior canzone originale.
Il parco maschile del film è di una bellezza mozzafiato, ma su tutti spicca Stanley Tucci, forse il meno glamour ma di sicuro il più affascinante per classe e carisma.
La colonna sonora passa via abbastanza inosservata (peccato mortale per un musical) e in una scena, quella del post coitum tra la Aguilera e il suo boyfriend, il riferimento a "Cabaret" è inequivocabile.
Peccato ci sia più talento in una singola unghia verde di Liza Minnelli che in tutti i 119 minuti di questo film.

Mario Gardini

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Amore e altri rimedi
USA 2010
con Jake Gyllenhaal, Anne Hathaway, Oliver Platt


Lui è un simpatico bastardo dal pisello allegro che, proprio a causa di questo, ha appena perso il suo lavoro di venditore. Lei è una tipa tosta di 26 anni al primo stadio del Parkinson. Lui, a ritmo di Macarena, diventa informatore farmaceutico e soccombe nella guerra tra Prozac e Zoloft. Lei vuole solo sesso e rifugge così tanto da qualsiasi impegno sentimentale da sembrare quasi un maschio gay. Lui assurge alla gloria grazie all'avvento del Viagra che, come giustamente ci ricorda Belinda Carlisle, è il Paradiso sulla Terra. Lei organizza gite per vecchietti in Canada dove le medicine costano di meno.
Complice una borsettata in testa, tra i due esplode la passione, destinata a trasformarsi rapidamente in qualcosa di più profondo. Ma la malattia incombe e la paura di una vita a due, in questo caso, è più giustificata che mai. Nonostante qualcuno consigli molto carinamente al giovane di scappare a gambe levate prima che sia troppo tardi, lui invece decide il contrario. Ma sarà lei quella intenzionata a troncare prima di dover dipendere troppo, sia psicologicamente che fisicamente, da qualcun altro.

È vero, siamo a Hollywood. Però fa sempre bene all'anima pensare che l'amore possa essere più forte di tutto, perfino del Parkinson. Anche perché il regista Howard Zief ci risparmia di vedere come diventerà la bella Maggie una volta raggiunto il quinto stadio.
Una buona sceneggiatura, ricca di humor nero, aiuta a superare con un sorriso anche le parti più pesanti del film, che mantiene comunque un encomiabile equilibrio tra dolce e amaro per quasi tutta la sua (forse un po' eccessiva) durata.
Jake Gyllenhaal e Anne Hathaway, già sposi infelici in Brokeback Mountain, sono belli, bravi e si candidano a diventare la coppia simbolo di un'epoca squallida in cui è più facile dire "scopiamo" che "ti amo". Eppure, alla fine, la morale è sempre quella: a cosa serve possedere qualsiasi cosa se non hai accanto una persona cara con cui dividerla?
Con un contorno di medici disillusi, infermiere passepartout e un barbone che si rifà una vita grazie agli antidepressivi trovati in un cassonetto, "Amore e altri rimedi" è un film piacevole e, a tratti, toccante, il quale può vantare, tra i suoi vari meriti, anche quello di farci dire addio a Jill Clayburgh, donna tutta sola scomparsa lo scorso novembre a soli 66 anni.

Mario Gardini

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Il cigno nero
USA 2010
di Darren Aronofsky
con Natalie Portman, Vincent Cassel, Barabra Hershey


Nina è una bella e tormentata adolescente mai cresciuta. Fa la ballerina a New York e vive in una specie di casa di bambole con una madre opprimente che riversa su di lei tutte le sue frustrazioni di "etoile" mancata.
Un giorno per Nina arriva finalmente la grande occasione: essere Odette, la protagonista de "Il lago dei cigni", interpretando il doppio ruolo sia del cigno bianco che di quello nero.
Però il regista/coreografo francese (un viscido Vincent Cassel) la mette sotto pressione poiché la sua innocenza e la sua ossessiva ricerca della perfezione la rendono straordinaria nel ruolo del cigno bianco, ma la sua totale carenza di sensualità la penalizza in quello del suo malvagio alter ego.
Oltretutto nel corpo di ballo si è appena aggiunta la provocante Lili (Mila Kunis) che toglie il sonno a Nina non solo per la paura che le soffi la parte, ma anche per i desideri saffici inconfessati della povera ragazza.
Ma sarà proprio Lili la chiave di volta che farà emergere la metà oscura di Nina portandola al trionfo ma, nello stesso tempo, condannandola alla rovina.

Morboso e patinato, presuntuoso ma privo di grande spessore artistico, "Il cigno nero" tocca tanti temi senza approfondirne nessuno.
L'anoressia, i sacrifici per arrivare al successo, la disperazione di chi si avvia lungo il viale del tramonto sono solo tante piccole particelle di un insieme che da una lato affascina per la sua forza immaginifica ma, dall'altro, annoia per la prevedibilità della trama.
Il regista Darren Aronofsky, che divenne famoso resuscitando Mickey Rourke nel pluripremiato "The wrastler", qui gioca un po' troppo a fare Andrzej Zulawski, anche se del collega polacco non ha né il talento onirico né lo spirito sulfureo.
Il film si regge interamente sulle spalle di una bravissima Natalie Portman (giustamente premiata con l'Oscar) la quale, sulla punta dei piedi, ci conduce attraverso i gironi del suo inferno personale graffiandosi la schiena, tagliandosi le unghie fino alla carne, sballando con l'ecstasy e gemendo per il primo orgasmo fai-da-te.
Un mio amico ha definito "Il cigno nero" una sublime boiata. Concordo in pieno.

Mario Gardini

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