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Malik, ritratto del boss da giovane


 

Maria Antonietta Nardone


"Il profeta" -
Jacques Audiard
(Nuovo Sacher)

Le note di "Mack the knife" accompagnano gli ultimi fotogrammi di un film tanto duro quanto bello. Certo, dire bello quando la stragrande maggioranza delle scene si svolge in un carcere, può sembrare incongruo o inadatto. Eppure non ho altra parola per definirlo.
È la storia di Malik, un diciannovenne maghrebino, che, ormai maggiorenne, viene spedito non più in un reclusorio minorile ma nel carcere degli adulti. E qui fa il suo duro apprendistato, da giovane senz'arte né parte (ma certo non un assassino) ad autorevole boss malavitoso, con tanto di uomini al suo servizio. E proprio qui, in carcere, grazie alla "protezione" dello scostante e spietato Cesar Luciani, un capo della mala corsa protezione non voluta e pagata con il suo primo omicidio Malik impara tutto; impara tutto non solo come futuro capo di una sua banda (e tutte le dinamiche, i giochi, i trucchi e le psicologie criminali), ma anche a leggere e scrivere in un buon francese, a parlare un'altra lingua, il corso, (oltre a parlare naturalmente l'arabo) e a scoprire l'amicizia e perfino, alla fine, la responsabilità. Insomma siamo davanti ad un vero e proprio bildungsroman, un romanzo di formazione, che nulla concede alla banalità o alla retorica.
Girato in una maniera puntuale, senza sbavature e in tempo reale (noi spettatori scopriamo, sentiamo, reagiamo assieme e accanto al protagonista senza sapere nulla di come andrà finire, proprio come Malik), il film inchioda fino alla fine nella scoperta di un personaggio e di un "mondo" che non è facile da raccontare con autenticità. E quello che più mi ha colpito, come all'epoca dell'uscita di "Gomorra" di Garrone, è la tristezza, la tristezza profonda per questi ragazzi che, pur intelligenti e "sani" affettivamente (almeno all'inizio), sembrano non avere scampo nell'imboccare una via e una vita da criminali; per sopravvivenza, come recita il sottotitolo "uccidi o sarai ucciso". E fa venire i brividi quel suo iniziale:"Io non uccido nessuno", terrorizzato alla sola idea di uccidere. Davvero uno spreco di energie, vitalità, intraprendenza, a cui una società che ha a cuore i propri giovani, e quindi il proprio stesso futuro e la propria stessa sopravvivenza, non può non riflettere e, in quelli che ne hanno la responsabilità politica e sociale, trovare dei rimedi.
Il regista, Jacques Audiard, ha inserito anche l'elemento del sogno, con qualche riscontro profetico, anticipatorio, diciamo, e l'ha fatto con tocco poetico eppur asciutto. Per non parlare del senso di colpa che si materializza con il dialogo allucinatorio tra Malik e l'uomo che ha ucciso. Brucia e segna profondamente l'assenza dell'elemento femminile, di un femminile senza il quale la personalità di un uomo non si struttura in maniera completa e armoniosa. Il corpo, il sangue, i colpi subiti e dati, la reclusione, le pulsioni sessuali represse o svilite, la corsa nella cella d'isolamento ecc. ecc. rivelano la "barbarie" di imprigionare in scatole di cemento e sbarre di ferro dei corpi (e delle menti) di giovani uomini. E questo giovane uomo (un ragazzo che diventa uomo in carcere), che subisce anche una forma di razzismo becera e primitiva, non è affatto "un arabo che ragiona con l'uccello", come sostiene il capomafia corso, ma un arabo che supererà il suo (cattivo) maestro.
Ripeto, è un film magnifico, che si avvale di interpreti bravissimi: tutti davvero bravissimi, in ruolo e con volti che non si scordano. Eccellono il padrino corso impersonato da un coriaceo, rugoso e gelido Niels Arestrup e il giovane Malik, l'apprendista criminale, incarnato da un indimenticabile Tahar Rahim, che col suo volto rigato da tanti tagli e cicatrici e quel suo corpo, giovane eppur profondamente inciso da numerosi segni, mi ha toccato profondamente con questa sua parabola di intelligente boss in irresistibile ascesa. Una figura indimenticabile. E la canzone di "Mack the knife" l'originale tedesco di Brecht e Weill è "Mackie Messner" accompagna la sua uscita dal carcere. Ora è pronto. Laureato con tanto di master a condurre nella vita dei "liberi" quanto ha appreso nella vita dei reclusi.

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