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Libri a fumetti

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Fare Teatro
Intervista a Paolo Conticini

Miti mutanti 1

Strisce di Andrea Cantucci

Fare teatro
 

di Ilaria Mainardi


Sono giorni caldi per la scuola e l'università, giorni di riforme e controriforme, di proteste coese e di silenzi complici, di affermazioni perentorie e di subitanee smentite. Conscia di non trovarmi nella qualità di oratore di questa o quella tribuna politica e consapevole dunque che "non è questo il luogo deputato a sbandierare il proprio credo", mi permetto tuttavia di avviare una riflessione che parte da lontano trascinando con sé un bagaglio di quesiti fondamentali. Credo sia stato l'incontro ravvicinato con il teatro "dal vivo" a farmi aprire gli occhi. Spero quindi mi perdonerete se mi è venuta una gran voglia di raccontare una mia piccola esperienza non direttamente (?) connessa con la scuola e le novità ministeriali delle ultime settimane, ma, chissà, forse illuminante per chi volesse sperimentare un apprendimento che si discosta dal consueto binomio interrogazione - compito in classe.
Due anni fa ho avuto la possibilità si svolgere un lungo tirocinio presso il Teatro Giuseppe Verdi di Pisa, realtà nota alla cittadinanza per la vivacità culturale che vi trova spazio oltre che per la ricchezza dei cartelloni proposti.
Da circa quindici anni la "Fondazione Teatro di Pisa" si pre-occupa infatti di giovani e giovanissimi grazie al progetto "Fare Teatro". Attraverso i laboratori di recitazione, canto, scrittura creativa e danza, ragazze e ragazzi adolescenti o post adolescenti, eterogenei per interessi, formazione ed esperienze di vita, si incontrano lungo il filo rosso dell'immaginazione e del gioco.
Nei laboratori di recitazione 2006/'07 (anno appunto del mio tirocinio) i docenti hanno scelto di lavorare sui "mostri" attraverso testi ("Così è (se vi pare)" di Luigi Pirandello, "Carmina Vini" di Ugo Chiti e "Ubu" di Alfred Jarry) che ne declinano valenze ed ambiguità di significato.
Cos'è infatti un mostro?
E' una persona dall'aspetto particolarmente sgradevole o un individuo che si è macchiato di crimini efferati, o è piuttosto, come ci indica l'etimologia latina "monstrum", un prodigio che ammonisce della volontà degli dei, un portento?
E ancora: come si arriva alla creazione del "mostro"? Chi sono oggigiorno i "mostri"? Come si situa la nostra coscienza di fronte al "mostro"?
Sono domande, queste ed altre, che ci hanno accompagnato durante tutto il nostro lavoro insieme.
Fatti di cronaca (il massacro di Erba, per esempio, così come tante piccole ferite quotidiane, meno note, ma altrettanto importanti) ci hanno poi indotto a riflettere sul binomio di pasoliniana memoria "sviluppo-progresso" e ad interrogarci su chi siano i "mostri" oggi.
Si è cominciato con una fase di lavoro comune (con i ragazzi suddivisi in tre macrogruppi) atto soprattutto a stabilire rapporti, a creare relazioni, teatrali sì, ma anche umane, a rendere il singolo parte di un gruppo e allo stesso tempo a rendere il gruppo consapevole dell'importanza di ogni singolo apporto.
Le richieste dei docenti, splendide guide, hanno accompagnato individualità sospese fra un "prima" e un "forse" attraverso la scoperta del gioco teatrale e del modo più onesto (non più esatto!) di percorrere la propria/le proprie direzioni di uomini e donne in fieri.
Non si gioca per vincere, aldilà di ogni retorica, perché il concetto di vittoria non trova spazio in un contesto dove il "come" è vitale, il "quanto" o "in quanto tempo" sono approdi possibili, da raggiungere con pazienza e delicatezza, ma non motivo di frustrazione o ansia.
Abbastanza disillusa e prostrata dall'horror vacui di certe aule universitarie sono stata letteralmente catapultata in un contesto in cui lo "stare dentro", anche come scelta prossemica, diveniva requisito essenziale di una condivisione fisica ed emotiva, emozionale direi.
I gruppi, suddivisi nei tre cast, hanno poi cominciato il lavoro sui testi: "Così è (se vi pare)" è il laboratorio che, d'accordo con i docenti, ho scelto di seguire in modo particolare.
Il cast di "Così è (se vi pare)", coordinato, accompagnato e supportato da Luca Biagiotti (formatore teatrale e docente universitario), ha così cominciato intorno a metà novembre 2006 a relazionarsi con la complessa "diavoleria" dell'autore siciliano.
Difficile, lontana da noi/loro, gioco al massacro di un intellettuale poco avvezzo a scendere fra gli uomini, paradigma crudele sulla relatività del reale: questi ed altri pregiudizi accompagna(va)no la produzione teatrale di Pirandello.
Luca Biagiotti, fin dalle prime letture collettive, con i ragazzi sanamente incoscienti, ma forse ancora un po' impauriti da reminiscenze scolastiche, ha tentato con la cura, il rispetto e il pudore che sono necessari quando si lavora con gli esseri umani, di sfatare falsi miti e preconcetti accademici, fuorvianti rispetto al lavoro che si proponeva di svolgere. Ha cercato di portare qualcosa di loro nel testo di Pirandello e qualcosa di quei personaggi nelle loro sensibilità di giovani ragazze e ragazzi.
Niente a che vedere con il processo di fleboclisi, non si è trattato di uno stillare progressivo e quasi inconsapevole di una realtà ritenuta fittizia, perché cartacea, in un'altra concreta nella sua tridimensionalità. Ho assistito piuttosto a molteplici incontri fra persone animate dalla volontà e dall'esigenza forte di scambiarsi esperienze, emozioni, dubbi. Le categorie di "vero e di "falso", di "giusto" e di "sbagliato", tanto care a certa pedagogia scolastica, non sono in fondo così necessarie (e soprattutto non sono univocamente stabilite) e le domande, crescenti di giorno in giorno e sempre più articolate e profonde, trovano risposte che nascono dalla propria sensibilità che si mette in relazione con quella degli altri: "quanto è importante avere ragione?", "che prezzo siamo disposti a far pagare agli altri per poter affermare di avere ragione?", "come si colloca la responsabilità individuale rispetto a quella collettiva?", quesito questo profetico, nel 1916, anno di pubblicazione del dramma, rispetto agli orrori del nazi-fascismo e dell'Olocausto.
Attraverso il gioco, termine alto troppo spesso relegato a qualcosa di prettamente infantile o infantilistico, Luca Biagiotti ci ha chiesto di confrontarci, nessuno escluso, con passioni, sentimenti, paure, disagi inesplorati eppure così concreti anche nel nostro quotidiano. Termini come "compassione", come "disgusto", come "mostro" si sono così riempiti di senso assumendo un significato che non è stato frutto della consultazione di un buon dizionario, ma è partito piuttosto dal vissuto di ognuno di noi.
E così, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, ha preso corpo lo spettacolo, tappa conclusiva dei laboratori di "Fare Teatro", ma non certo esito finale di lavori che continueranno a far germogliare idee e pensieri in chi ha potuto seguirne gli sviluppi.
In particolare l'azione di "Così è (se vi pare)" è scesa dal palcoscenico per situarsi su due gradoni predisposti a ridosso della platea e poi, man mano, penetrare e insinuarsi fin dentro la platea stessa della sala principale del Teatro Verdi.
Se si eccettua la valenza filosofica e simbolica dell'ultima, folgorante, apparizione che meriterebbe per questo considerazioni di altro tipo, ci siamo infatti resi presto conto di avere a che fare con personaggi realistici e verosimili, quand'anche per diverse ragioni biasimabili, con le loro paure, idiosincrasie e debolezze, non certo con meri strumenti inerti di un teatro che riflette su sé stesso: i personaggi di Pirandello, in questo testo come altrove, entrano dal mondo e del mondo fanno parte.
E quindi la signora Frola, il signor Ponza, i coniugi Agazzi, i Sirelli, Laudisi e tutti gli altri sono divenuti vivi negli occhi e nella voce di un gruppo di ragazzi via via più consapevoli e sempre
pronti a sorprenderci con un quesito, una considerazione, un'emozione nuova.
Ne è risultata così una "messa in assemblea", di ellenica memoria, in cui attori e pubblico si sono incontrati fisicamente e hanno giocato insieme fino allo spiazzante finale (?), irrisolto e irrisolvibile, misterioso come l'essere umano.
L'anno successivo il piccolo-grande miracolo si è ripetuto: il testo scelto questa volta è "Measure for Measure" di William Shakespeare.
Si tratta a tutti gli effetti di un dramma "moderno" dove tragedia e commedia si intersecano in una commistione labile come le pulsioni dell'animo umano.
Anche in questo caso, come sempre, i docenti (Luca Biagiotti e Cristina Lazzari) scelgono di partire dalle domande che "Misura per misura" pone inevitabilmente a chi vi si accosta con pudore ed onestà: "scelgo di perseguire il mio interesse o il bene della comunità alla quale appartengo", "come si pongono i miei valori rispetto a ciò che è bene per chi mi sta a cuore", "cosa significa la parola sacrificio e cosa vuol dire giudicare", "quale valenza ha nella nostra vita il perdono e a che cosa si è disposti a rinunciare per amore". Queste e mille altre le domande con le quali il testo chiama a confrontarsi e che hanno fatto da substrato imprescindibile al lavoro con i ragazzi, durato circa un anno.
All'inizio si tenta di prendere confidenza con un testo ignoto, ci si confronta sulla scia delle prime impressioni, delle suggestioni, dei rimandi: la grande abilità è stata, in un primo approccio al testo, quella di riuscire a vincere il timore reverenziale che tanta cattiva pedagogia inculca quando ci si avvicina ad autori come il Bardo.
Luca e Cristina (in questo modo li chiamano i ragazzi e così vorrei chiamarli anch'io d'ora in avanti) portano così il Duca di Vienna, Pompeo, Isabella, Angelo, Madama Strafatta, Lucio ecc. nella vita dei ragazzi chiamati a dar loro voce e corpo. Pian piano, sempre con la delicatezza necessaria a chi sa di lavorare con una pasta tanto friabile quanto ricca di sfumature preziose, negli occhi dei ragazzi si sono fatte accendere tante, piccole fiammelle di curiosità, di empatia, di disappunto, di tenerezza. Ognuno di noi, nessuno escluso, sente avvicinarsi alle proprie corde più intime quei personaggi apparentemente così distanti e forse anche il tempo si concentra fino a farci pensare che le istanze di ieri (storicamente "Misura per misura" si colloca sul finire della dinastia Tudor e all'avvento del nuovo monarca, scozzese e cattolico, Giacomo I Stuart) siano inaspettatamente simili a quelle di oggi: la curiosità diviene urgenza, l'appetito fame insaziabile.
Ad ogni incontro il testo diventa sempre più "nostro", la memoria si consolida, ci scopriamo a conversare attraverso le parole dei personaggi shakespeariani, sappiamo che ci è stato fatto/ci stiamo facendo un dono del quale riconosciamo, sempre più, la qualità straordinaria e irripetibile.
Lo spettacolo (28 - 29 - 30 ottobre 2008) è un tripudio di colori e di umori: tutti protagonisti, con il pubblico chiamato a condividere la responsabilità delle parole pronunciate dai ragazzi sui praticabili di legno collocati al centro della sala "Titta Ruffo" del Teatro Verdi di Pisa.
Si lascia il teatro con mille domande e tante giovani mani tese verso l'età adulta che ha lasciato per strada qualcosa, distratta da troppi abbagli. Idealmente ci strizzano l'occhio, attraverso la vivacità dei loro sguardi ci regalano una speranza, quella, non trascurabile, di poter contare l'uno sull'altro.
L'ho definito come un piccolo miracolo, in realtà non so bene cosa sia, immagino che una similitudine religiosa non sia neppure la più calzante. So per certo, e lo ribadisco, di avere avuto il privilegio di vedere la realtà attraverso gli occhi "brucianti" di giovani uomini e giovani donne supportati ed accompagnati da docenti di rara sensibilità ed intelligenza.

Perché ho provato a raccontare tutto questo? Perché ho visto adolescenti innamorarsi lettura dopo lettura di due testi estremamente complessi e pronunciare quelle parole con la cura degna di un oggetto raro e prezioso.
Quei ragazzi sono gli stessi che un ministro poco lungimirante tenta di condannare all'ignoranza di Stato.

Ripensando a questa recente esperienza in relazione a ciò che sento sbandierare in questi giorni da politici e politicanti, mi sono chiesta: davvero li hanno ascoltati?

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