|  | 
                                                    
                            | 
                              Magritte, l’impero delle luci
 
 
                “La pittura è soltanto un mezzo che mi permette di portare 
                alla luce un pensiero grazie all’utilizzo di elementi presi al 
                mondo visibile.” MagritteLe suggestive sale settecentesche di Villa Olmo ospitano 
                un’ampia ed articolata rassegna dell’opera di Magritte, Maestro 
                della sorpresa e dell’incanto, del mistero e della poesia. 
                L’esposizione inizia con “L’amazzone”, dipinto nel quale si 
                accosta al naturalismo una costruzione cubista, e prosegue 
                seguendo la nascita del suo improbabile universo declinato via 
                via secondo le tendenze metafisiche, surrealiste, simboliste, 
                fauviste, ma sempre filtrandole attraverso il suo personalissimo 
                stile. E’ luogo comune ritenere che le esperienze traumatiche 
                costituiscano un bacino inesauribile al quale gli artisti 
                costantemente attingono, ma nel caso di Magritte ciò è vero: il 
                suicidio della madre, avvenuto quando lui era appena 
                adolescente, verrà rielaborato in numerose sue tele. Ella fu 
                trovata annegata con la testa avvolta nella camicia da notte, e 
                questa immagine velata entrerà a far parte delle sue icone 
                ricorrenti. I suoi soggetti, sebbene vari, ripropongono spesso 
                gli stessi elementi assemblati in modo diverso: i nuvolosi cieli 
                del Nord che fecero coniare a Max Ernst il motto “ Fa un tempo 
                Magritte”, il mare e l’aperta campagna, gli alberi stilizzati e 
                il bosco incantato, i notturni, i sobborghi, gli alfieri, un 
                certo stereotipo di borghesia dell’epoca, languide dame e l’uomo 
                in bombetta, colombe, sonagli, sfere, mele. Le classificazioni 
                non riescono a circoscrivere l’impronta, unica, che caratterizza 
                le sue opere donando loro una forza sovversiva strabiliante. 
                Egli trasfigura la realtà quotidiana di improbabilità, con 
                freddezza ed apparente rigidità accademica, elevandola a 
                dimensione magica e trasmettendo la sensazione di attesa 
                angosciata di qualcosa che incombe. Nel 1925 il pittore fu 
                folgorato dal “Canto d’amore” di De Chirico, visse l’assurda 
                composizione di oggetti come un’esplosione di percezione ed un 
                modo nuovo di reiventare il mondo sensibile. La pittura del 
                belga diventa la grammatica di un linguaggio alternativo che 
                destabilizza e affascina lo spettatore creando sequenze di 
                associazioni di idee impreviste. E’ sconcertante che i suoi 
                oggetti si rifiutino di assolvere alle normali funzioni ma, 
                attraverso il paradosso, le icone equivalgono ad atti di 
                pensiero visivo, dunque svincolate dalla necessità. Talvolta 
                inscena conflitti fra i soggetti e gli elementi della natura 
                suscitando l’impressione della fine della civiltà ed un ritorno 
                alla barbarie, ma anche quando mitiga questi effetti estremi 
                aleggia sempre un senso di minaccia. Il concetto di rêverie di 
                Bachelard come maggiore potenzialità dell’essere, in grado di 
                integrare ed espandere la conoscenza umana, si avvicina molto 
                alla filosofia di Magritte. E’ una sorta di dilatazione 
                dell’essere che fa approdare l’uomo ad una dimensione magica 
                svincolata dalla logica. Egli riesce a trasportare lo spettatore 
                in questo mondo paradossale senza ricorrere alla tecnica di Dalì, 
                quadri realistici ma in sé assurdi, preferendo invece 
                smaterializzare piuttosto che concretizzare; l’illusionismo 
                comune ai due artisti è giocato su piani diversi, infatti il 
                belga si esclude dal registro della pittura per entrare in 
                quello, totalmente cerebrale, dell’immagine. Magritte, sebbene 
                molto vicino, in certe sue fasi, al surrealismo, è profondamente 
                legato alla cultura simbolista che gli ha sempre fornito fonti 
                d’ispirazione, a partire dai dipinti di Khnopff. Egli lavorò 
                molto alla giustapposizione di soggetti non correlati fra loro, 
                come ne “ Il volto del genio”, “Il matrimonio di mezzanotte”, “ 
                La nascita dell’idolo”, ma poi si affidò alla strategia della 
                trasformazione, come ne “Il modello rosso”, ma sempre, le sue 
                immagini, nascono da un gioco ironico di accostamenti che 
                implicano l’idea del collage, visto come un “ incontro fortuito 
                di due irrealtà incompatibili, su un piano estraneo ad 
                entrambe”. Egli sovente giustappone banali immagini estratte 
                dalla quotidianità cercando di riconciliare realtà 
                contraddittorie, ispirandosi ai versi di Lautréamont, poeta del 
                diciannovesimo secolo, così come alle introspezioni di Freud. Il 
                celeberrimo quadro “L’impero delle luci”, che dà il titolo alla 
                mostra, fa coesistere un paesaggio notturno con un cielo diurno: 
                gli elementi, presi singolarmente, rinviano ad un fatto banale 
                ma, associati, creano meraviglia. La metamorfosi, processo a 
                lungo indagato e sperimentato dai surrealisti, trova in Magritte 
                un’espressione molto personale; una foglia che si tramuta in 
                albero nell’” Incendie”, titolo preso da Balzac, le foglie che 
                si tramutano in uccelli nell’” Ille du trésor”, con riferimenti 
                a Stevenson, o nell’inquietante e malinconico “La saveur des 
                larmes” dove dall’albero nasce un uccello con il corpo nervato 
                come una foglia e mangiato da un bruco. Una serie di quadri 
                appartenenti al suo periodo vache, quasi una parodia del fauve, 
                ci dimostrano la sua estrema versatilità. In mostra anche una 
                serie di calligrammi, così diversi da quelli di Mirò, nei quali 
                la scrittura scompare nell’anonimato di una grafia 
                standardizzata e segna la sconfitta del linguaggio come 
                rappresentazione. Anche i titoli dei suoi quadri sono rilevanti, 
                perché furono scelti in modo da impedire un approccio neutro 
                all’opera, tuttavia spesso furono i suoi amici a deciderli 
                durante le serate in cui si intrattenevano nel “gioco del 
                titolo”. Magritte asserì :” Coloro che cerchino nella mia 
                pittura significati simbolici non coglieranno la poesia e il 
                mistero legati all’immagine.” E quindi seguiamo le indicazioni 
                del suo genio e lasciamoci andare alle emozioni provocate dalla 
                sua ode al paradosso senza costringerci a trovare elaborati 
                significati, troppo spesso astrusi.
 
 Magritte, l’impero delle luci
 Dal 25 marzo al 16 luglio 2006- Villa Olmo, Como
 |  
                            |  |  |