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Intervista a Enrica Zunic

Ci sono tanti modi per raccontare l’irraccontabile, per raccontare la tortura. Enrica Zunic ha cercato di farlo... a cura di Massimo Acciai

...che tu sia per me il coltello (Kafka e le avventure del pensiero)

Intervista a Mario Ajazzi Mancini... a cura di Monica Pintucci e Massimo Acciai

Narrativa

Schizocosmia... di Francesco Felici
Il paesaggio... di Andrea Cantucci
Fiore senza petali... di Miklós Rödzsjer
Lettera sommossa dell’amato consumato... di Monica Pintucci

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Daniela Adamo, Maria Chiara, Andrea Cantucci, Lorenzo Carpentiero, Francesco Felici, Altèro Lupo, Marco Saya

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici, in una lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie in lingua esperanto, volapük, ungherese, napoletano

Aforismi

Massime... a cura di Lorenzo Carpentiero

 

 

 

 

...che tu sia per me il coltello

(Kafka e le avventure del pensiero)

Intervista a Mario Ajazzi Mancini

a cura di Monica Pintucci e Massimo Acciai

Mario Ajazzi Mancini è psicanalista a Firenze. Autore di saggi e volumi di argomento psicanalitico e letterario, è anche autore in proprio e traduttore di poesia (I Sonetti a Orfeo di Rilke, per Newton Compton). Ha curato l’edizione italiana dell’opera di Nicholas Abraham (presso Liguori), ed una edizione dei casi clinici di Freud (presso Feltrinelli). Insegna epistemologia e psicoterapia psicanalitica presso la Scuola di Psicoterapia Comparata. Dal 1999 dirige il laboratorio di Afanisi (clinica teoria e scrittura): http://www.afanisi.net.


Mario Ajazzi Mancini mi è stato presentato da un amico avvocato, Michele Parigino, che ringrazio di cuore; parlando di letteratura Michele mi ha proposto di intervistare Mario sul suo tema preferito: Kafka. L’idea mi è subito piaciuta: Kafka è senza dubbio un autore universalmente conosciuto, e l’aggettivo "kafkiano" è entrato nel linguaggio colloquiale a testimonianza dell’influenza notevole che ha avuto nel secolo appena trascorso. Devo confessare tuttavia che prima dell’intervista non conoscevo molto su questo autore fondamentale del Novecento, anzi avevo letto molto poco; molto più preparata di me era Monica, compagna di tante interviste, che si è entusiasmata all’istante quando le ho comunicato la gentile disponibilità di Mario a parlarci un po’ dell’autore della Metamorfosi. Dopo una telefonata preliminare lo incontro nel suo studio il 17 febbraio 2004, nel primo pomeriggio. Mi accoglie con cortesia e mi offre un caffè. Stavolta sono solo ad affrontare questa intervista, benché le domande le abbiamo scritte io e Monica; lei non è potuta venire a causa dell’influenza. Mario è un grande conversatore, inizia a pormi molte domande riguardo a me e a Segreti di Pulcinella, quasi fosse lui ad intervistarmi e non viceversa. Abbiamo parlato a lungo; la conversazione sarebbe potuta proseguire all’infinito, data la varietà enorme dei temi trattati, se non ci fossero stati comunque limiti temporali. Sono uscito con l’impressione di aver conosciuto una persona straordinariamente eclettica e preparata su tutto, dotata di una enorme curiosità verso il mondo.

• M: dott. Mario Ajazzi Mancini

• MP: Monica Pintucci
• MA: Massimo Acciai

MP: Quando ha scoperto l’opera di Kafka? In che occasione ha cominciato ad occuparsene seriamente? Cosa inizialmente la ha appassionata di più dello scrivere di Kafka, diciamo il "viaggio visionario tra le macerie della coscienza" o il calore e la comprensione umana che sembra voler suggere dallo stesso lettore?

M: Kafka è la scoperta di tutta una vita. L’aggettivo "kafkiano" ha questo di straordinario: è comprensibile in tutte le parti del mondo; non si traduce mai. Il mio incontro con Kafka è quello dei tempi del liceo, in cui cominciano a nascere le grandi passioni letterarie. Il primo racconto che ho letto è stato La metamorfosi, e l’ho letto ­ forse le farà piacere Massimo ­ come un racconto di fantascienza, solo un po’ sui generis; pensiamo ad esempio a film come La mosca ed a molti altri costruiti sul modello de La metamorfosi. L’interesse per Kafka è parallelo all’interesse per la psicologia e, con essa, per la questione della colpa, una questione fondamentalmente occidentale. Di recente ho scoperto che il grande tema di Kafka non è la colpa, è tutt’altro tema e casomai cercherò di dire qualcosa dopo. Credo che noi occidentali rimaniamo così affascinati da Kafka perché ha questa straordinaria capacità di suscitare emotività; Kafka crea situazioni torbide, se vogliamo, angoscianti e assurde, paradossali… Il mio interesse per lui ha cominciato a ridefinirsi al tempo degli studi universitari, in particolare degli studi di logica e di epistemologia, in quanto iniziai allora, e continuo tuttora, a rendermi conto che le sue operazioni narrative erano operazioni che coinvolgevano gli elementi basilari del pensiero. L’opera di Kafka è sì una riflessione intorno alla caduta, una domanda sulla condizione del peccato, ma non tanto e non solo in termini esistenziali, attraverso cioè le famigerate categorie dialettiche - penso soprattutto alla lettura di Kafka che ha dato Remo Cantoni, ai lavori di Giuliano Baioni (il nostro più illustre studioso di Kafka, da poco scomparso), ma anche a Calasso stesso (ricordo il suo recente K., a mio avviso la più intensa pubblicazione in italiano sul nostro) - ossia alle cosiddette categorie della spiritualità. Kafka lavora attraverso modalità logiche ed è estremamente moderno ­ e lo vediamo soprattutto se ci si sofferma sui famosi aforismi di Zürau, scritti in quel piccolo paesino della campagna ceca dove abitava sua sorella e dove lui passò un inverno, immediatamente dopo che gli fu diagnosticata la tubercolosi. I medici gli consigliano di ritirarsi in campagna e lui va in questo podere dove la sorella gestisce un’azienda agricola, ci sono le papere, i topi… (l’episodio dei topi ­ documentato dalle lettere - ispirerà poi il suo ultimo racconto, Josephine, la cantante ovvero il popolo dei topi). Se riprendiamo le questioni sollevate in questi pensieri - letti molto spesso dalla critica come un tentativo di riflessione all’interno dell’alveo della spiritualità ebraica - ci rendiamo invece conto che Kafka è moderno nell’accezione moderna del termine ­ scusate il bisticcio ­ in quanto interroga il proprio sapere, produce una scienza sull’uomo interrogando quel poco che sa, e questa è un’operazione occidentale, nella linea che va da Cartesio a Freud e giunge a noi se vogliamo; non è solo quello che so a fare problema, ma il modo in cui so e com’è che si presenta il mio sapere. A mio avviso il grande apparato di parabole, similitudini e metafore che Kafka dispiega va considerato non tanto in accezione dialettica ­ le cosiddette "favole per dialettici" - quanto come uno strumento epistemico, perché sembra consentirci di articolare il sapere e produrre cambiamenti nella nostra posizione rispetto ad esso; c’è questa straordinaria continuità legata al motivo dell’assurdo, se desideriamo proprio mantenere il cliché, ma al tempo stesso ogni nuovo passaggio che Kafka compie è come se ridefinisse la propria posizione soggettiva. Le risposte narrative che produce sono a loro volta enigmi che la scrittura successiva non mancherà di mettere in questione.

MP: Ha provato a seguire concettualmente il percorso visionario kafkiano tra le macerie di imperi, di coscienze e di speranze, tra lirismo esistenziale e sacrificio di sé, è riuscito a delimitarne in qualche modo e per un qualche senso le "coordinate"?

M: Questa è una domanda un po’ strana, risente della kafkologia ­ con tutto il rispetto per la kafkologia. Walter Benjamin, grande pensatore del marxismo e del messianismo, ha scritto un saggio nel 1934 che è la matrice critica di tutta la kafkologia. Questo saggio di Benjamin, a mio avviso e per quanto ne so ­ non essendo germanista -, opera per la prima volta una grande distinzione intorno alla critica sull’opera di Kafka, e divide la kafkologia ­ "kafkologico" è un aggettivo che ha coniato Milan Kundera un po’ a presa di giro per il primo biografo di Kafka, il suo grande amico Max Brod, quello che ha permesso che l’opera di Kafka non venisse bruciata ­; insomma Benjamin, dieci anni dopo la morte di Kafka, distingue due grandi tronconi: la critica naturale e la critica sovrannaturale. La critica naturale è la kafkologia improntata alla psicanalisi, quindi il versante critico più interessato alle risonanze nella coscienza o nel subconscio, alle figure del padre, alle strutture edipiche. La critica sovrannaturale è orientata al messianismo, alla teologia kafkiana. Ci sono, su questo tema, pubblicazioni molto interessanti ­ della casa editrice La Giuntina ad esempio, qui a Firenze. Si tratta di una lettura dei testi più enigmatici di Kafka come tentativi di raffigurare situazioni messianiche; prendiamo la famosa immagine - si trova nel Processo - del contadino davanti alla porta della Legge e per tutta la vita aspetta di entrarvi ­ quest’immagine, dicevo, è diventata il grande emblema della lettura sovrannaturale di Kafka. Io credo che le questioni siano molto più delicate. Kafka non presenta soluzioni, o quantomeno soluzioni praticabili; è come se ogni volta ti invitasse a scegliere una strada; cosa avresti fatto tu se fossi stato il contadino, avresti forzato il guardiano?… Kafka apre una gamma di possibilità di cui ciascuno è chiamato a prendere atto. Il suo mirabile talento di narratore rimane sempre irriconducibile all’interpretazione, fortunatamente; rimane sempre un enigma, un mistero… Il primo racconto compiuto che Kafka scrive è La condanna, lo conosce? Lui scrive a Felice ­ subito dopo averlo terminato - "ho scritto questo racconto durante tutta la notte, senza fermarmi mai, cominciando alle 10 di sera e finendo alle 6 di mattina, e quando sono arrivato in fondo mi sono reso conto che è come se fossi stato con una bella donna e la frase finale è come un orgasmo" ­ parafraso naturalmente, e banalizzo. È come se a lui stesso, che aveva parole o immagini per tutto, mancasse proprio… di un’immagine per questa sua scrittura. Questa è quella che lui considera la sua prima opera completa, scritta in una sorta di raptus durante quella notte fatidica notte del 22 settembre 1912; la prima conclusa davvero, ma poi ci ritorna in seguito, continua nelle lettere, sembra che questa cosa non possa finire, e l’immagine dell’orgasmo è il tentativo di chiudere qualcosa che sembra proseguire all’infinito!

MP: Non so se concorda nel ravvedere oggi un generale imbarbarimento culturale, con pochi padroni vincitori e molti servi sconfitti, e nello stimare l’attualità di Kafka proprio in opposizione a questa insensibilità incancrenita, nel suo slancio poetico, innocente, appassionato e allo stesso tempo ­ proprio per questo ­ disarmante?

M: Concordo. Si sa, ogni epoca vive il proprio imbarbarimento; ci imbarbariamo perennemente; non so se dietro a questo pensiero ci sia un’idea un gramsciana della cultura. Io utilizzo certe narrazioni kafkiane all’interno del corso per psicoterapeuti in cui insegno ormai da diversi anni: mi occupo di epistemologia, cioè non tanto della teoria della scienza quanto del modo in cui ciascuno di noi fa scienza, produce del sapere interrogandosi; e insieme a modelli logici e matematici impiego spesso Kafka, non tanto per il gusto della provocazione, del paradosso, quanto per cercare di dimostrare dove effettivamente l’interrogazione possa giungere e come gli effetti di verità prodotti siano sovente indipendenti, separati dal sapere che li promuove. La costruzione perfetta di una narrazione, o la costruzione perfetta di un argomento o di un’equazione matematica indica un tipo di stabilità ogni volta diverso; riguarda sempre più verità e consente sempre di ripartire. Kafka è quello scrittore che ci consente di continuare a scrivere, per questo la sua opera è necessaria, e per questo mi auguro che possa resistere ad un imbarbarimento. Fortunatamente se lei va su Internet e guarda le pubblicazioni su Kafka, continuano… C’è un bel sito dedicato a Kafka, quello che gestisce Mauro Nervi, un signore gentilissimo, sempre a disposizione: www.kafka.org. Lì c’è la possibilità di consultare tutta l’opera kafkiana in lingua originale. Il signor Nervi è sempre sollecito a dare indicazioni per e-mail; chi si occupa di Kafka e vuol leggerselo in tedesco trova lì riscontri straordinari. Ecco, il problema della traduzione kafkiana sarebbe un altro problema da toccare…

MA: Infatti questa era un’altra domanda che le volevo porre, riguardo alla fedeltà delle traduzioni in italiano di Kafka.

M: Una "traduzione fedele" vuol dire tutto e nulla. Io posso dire la mia; ho smesso di leggere Kafka in italiano da diverso tempo, ma questo riguarda le mie scelte, cioè io non dico "leggetevi Il processo in tedesco perché lo troverete più bello" ­ che sarebbe una affermazione tanto vera quanto sciocca. La traduzione a mio avviso più importante, forse anche più significativa, del Processo è quella che Einaudi ha commissionato a Primo Levi; nella postfazione Primo Levi segnala le difficoltà che lui ha incontrato. Tra tutte vi è quella della ripetizione degli stessi termini, che è una cosa che nella nostra prosa non tolleriamo, la ripetizione è una cacofonia; per Kafka, o meglio per la sua scrittura, questa era proprio un’istanza da portare avanti. Primo Levi trova le sue soluzioni, molti altri trovano soluzioni alternative. Levi, per la sua formazione scientifica e per la sua integrità è uno scrittore etico, è molto più interessato alla materia etica che a quella estetica; si è, infatti, scagliato diverse volte contro lo "scrivere oscuro", contro Celan ad esempio, contro certi celanismi, pur rispettando la grandezza ­ etica ed estetica - di questo straordinario poeta (per me, il più importante della seconda metà del ‘900), ma questo sarebbe un altro tema. Tornando alla traduzione, prima di tutto bisogna tener presente che Kafka considerava Il processo e Il castello come brogliacci; se lei guarda anche su Internet le pagine scritte da Kafka, non c’è mai un a capo; lui si metteva lì nottetempo e scriveva infinitamente; la spaziatura è stata inserita successivamente da Brod, così come la scansione in capitoli, addirittura i titoli di questi. Kafka non pensava alla pubblicazione dei due romanzi, in modo particolare del Castello, abbandonato, ci sono infatti diversi finali, tuttavia se vogliamo parlare di fedeltà, qui c’è già un tradimento. Molto spesso in traduzione si trovano cose che non ci sono, o viceversa, mancano cose che ci sono; forse si ricorda la famosa frase con cui finisce Il processo "’Come un cane!’ disse, ed era come se la vergogna gli sopravvivesse". In tedesco suona pressappoco così: "ed era come se la vergogna dovesse… avesse la destinalità… di sopravvivergli". Mauro Nervi contesta questa mia lettura, ma il mondo è bello proprio perché c’è tutta questa varietà di interpretazioni. A me sembra che in questo "dovesse" segnali l’emergenza della vergogna come un altro grande lascito freudiano… scusi, kafkiano: vergognarsi non tanto perché abbiamo commesso una colpa, ma la vergogna come categoria epistemica, come quel contatto per cui il pensiero incontra il corpo. La vergogna è il punto in cui il pensiero attorno all’esistenza incontra un corpo schiacciato, un corpo animale. In Kafka c’è una grande presenza di animali, dallo scarafaggio al topolino… Il momento in cui il pensiero incontra questo corpo deformato, là c’è qualcosa che Kafka ha chiamato "vergogna", ed è forse uno dei grandi lasciti più sconosciuti, questo incontro straordinario con la propria alterità che è la vita stessa, il vivente, potrei dire, l’animale che vive (anche l’uomo lo è, solo che ha il logos, il pensiero).

MP: Vede una coerenza, una perseveranza - riflesse nella scrittura - del martirio esistenziale di Kafka, o piuttosto l’esempio deflagrante di una disperata volontà di cambiamento?

M: Beh, tutte e due le cose. Kafka è un soggetto studiato con grande attenzione dagli psicopatologi. C’è Tatoussian, uno psichiatra francese, che se ne è occupato. L’opera di Kafka, e per un altro verso la sua vita, come raffigurazione e illustrazione di determinate situazioni psicopatologiche. Dall’altro lato la critica psicanalitica, Kafka come esempio massimo di nevrotico, come caso clinico di una nevrosi ossessiva. Con qualche amico psichiatra ci divertiamo, a volte, a speculare oziosamente intorno sul fatto che Kafka possa essere effettivamente un soggetto depresso; il suo diario, le testimonianze dei suoi amici, le sue amanti, tutto quello che ci è tramandato della sua vita dà delle chiare indicazioni che Kafka soffrisse di una grave forma depressiva, e ci si chiedeva se con gli attuali strumenti psicofarmacologici si sarebbe potuto cambiare qualcosa rispetto alla sua sofferenza; cioè se una volta guarito da questo "male di vivere", la sua vita e forse le sue opere sarebbero state diverse. Questa è se vogliamo un’ipotesi un po’ peregrina; io credo fondamentalmente l’opposto, cioè che il talento è qualcosa che va ben al di là della psicopatologia. Il soggetto Kafka è incurabile; curabile è la malattia del suo corpo. Se ci fossero stati gli antibiotici per esempio Kafka non sarebbe morto giovane, a 42 anni; la penicillina è venuta dopo, all’epoca di tubercolosi si moriva con grande probabilità. Ciò che è invece significativo è il fatto che molto probabilmente non sarebbe cambiato niente di ciò che Kafka ha fatto. La questione del talento è irriducibile al dato biologico ­ questo è il suo stesso limite, sosteneva Freud. Si ricorda il famoso argomento di Sartre che diceva che André Gide è certo un piccolo borghese, ma non ogni piccolo borghese è André Gide. È come dire che io sono a Roma, Roma è nel Lazio, quindi se sono nel Lazio sono a Roma; non regge, soprattutto per quanto riguarda il nesso che sembra legare depressione/malinconia a creatività.

MA: Quindi Kafka sarebbe rimasto sempre Kafka?

M: Io penso proprio di sì. Qui potremo discutere a lungo sul rapporto tra scrittura e vita, tra vissuto e poetato - un tema complesso. Sì, è vero che ciascun scrittore ha una sua biografia, però la sua biografia è funzionale alla sua scrittura e non viceversa. L’unica biografia di un uomo di lettere è la sua opera, e probabilmente questo vale a maggior ragione per Kafka; non che la sua vita non sia significativa, ma lo diventa in relazione alla sua produzione letteraria, non solo, probabilmente molti eventi della sua vita sono ingenerati dalla sua elaborazione letteraria. Se vogliamo mettere un "prima" logico, c’è prima un’elaborazione, un pensiero e poi un vissuto. L’opera di Kafka non è mai la ripresa della sua vita; io credo che il modo di pensare crei degli eventi. Questo è molto semplice, tutti noi scriviamo la nostra storia perché pensiamo. Quello che ci accade, al di là del mero caso, è che rientra, o non rientra, nel modo in cui noi leggiamo il mondo, o lo pensiamo o ci muoviamo.

MA: E’ un tema molto complesso…

M: Apro una piccola parentesi. Io faccio lo psicoanalista, pratico la psicanalisi - professionalmente devo dire la psicoterapia - e sono arrivato a ritenere che, banalizzando molto, tante delle nevrosi con cui mi confronto sono motivate da un mancato riconoscimento dei propri talenti, ovvero dal venir meno della erotizzazione, di ciò che crea legami, o meglio scrittura, quei nessi tra le cose per cui la vita diviene significativa. Il talentuoso non è necessariamente colui che sa far bene una cosa; il talento è la meraviglia di fare, ed è già tanto! Non importa mica essere tutti Kafka, no?

MA: Mi viene in mente la scrittura autobiografica; a proposito, ho intervistato qualche tempo fa uno scrittore [Matteo B. Bianchi] che ha pubblicato un paio di romanzi autobiografici; mi domandavo come si trasformano episodi vissuti quando vengono riportati nella scrittura…

M: Beh, forse è vero il contrario, cioè che c’è un pensiero che crea un vissuto, nel senso che nessuno di noi vivrebbe niente se non ne avesse una rappresentazione. Wittgenstein dice una cosa straordinaria quando fa l’analisi delle sensazioni; dice "delle sensazioni noi tutti pensiamo siano immediate, eppure c’è un sensismo che è immediato ma di secondo livello"; non potremmo avere determinate sensazioni, ad esempio quella dell’ovale del viso, se non avessimo prima un’idea, una rappresentazione dell’ovale. Detto più banalmente, non potremmo avere una sensazione di bellezza o di poeticità ­ che possiamo ritenere immediate ­ se non avessimo una competenza in qualche modo precedente ­ si tratta di una precedenza logica, non cronologica. Sono le nostre competenze a concederci questo tipo di sensazioni, che ci colpiscono direttamente, ma questo fatto le rende in qualche modo secondarie, successive e funzionali ad una idea che già abbiamo. Questa è una cosa non da poco.

MA: Alcuni critici hanno ravvisato molte analogie tra l’opera di Kafka e l’opera del nostrano Dino Buzzati, accusandolo persino di plagio, tanto che nel 1965 lo scrittore italiano ha dichiarato "Da quando ho cominciato a scrivere, Kafka è stata la mia croce". Cosa pensa al riguardo?

M: Le posso dire poco perché Buzzati non lo conosco, mi dispiace. Ricordo di aver letto Il deserto dei tartari tempo fa e di non esserne stato particolarmente colpito. Le rispondo con l’unico analista "santo" - che è Jacques Lacan, il quale diceva che nessuno può parlare in nome della Verità, e questo lo dicono solo i santi, benché lui molte volte assumesse la posizione della Verità… Lacan ha un percorso intellettuale molto articolato; è passato dalla psichiatria alla logica, a Spinoza, ai surrealisti, eccetera, e molto spesso genialmente si è servito dei linguisti per spiegare Freud, mentre la logica simbolica gli consentiva di fare certi passaggi. Tutte le volte che Lacan veniva accusato di plagio lui rispondeva che il simbolico non è di nessuno, quindi nessuno prende, nessuno dà, nessuno ruba. Forse il rapporto Buzzati-Kafka può essere letto in questi termini, senza scandalizzarsi e senza dire "quello è più bravo, quello è meno bravo"; credo che Buzzati abbia tutta la sua dignità di scrittore, probabilmente ha toccato corde molto affini a quelle di Kafka. Trovo invece una certa affinità tra Kafka ed Elsa Morante, e Giorgio Caproni. La Morante stessa confessava di aver riconosciuto in Kafka un grande maestro, forse per il grande rigore dell’interrogazione. Giorgio Caproni ha delle attinenze con Kafka nella misura breve, e riesce a dare la stessa forza che dà Kafka a certi paradossi. Ricordo di Buzzati quel racconto dell’ospedale, Un caso clinico, in cui il protagonista viene fatto scendere fino all’obitorio, questo me lo ricordo… La letteratura mostra e non dice, se vogliamo servirci di questa semplificazione. Kafka invece, mostrando, non fa vedere niente, il che è già qualcosa di straordinario. Mi viene in mente una frase di Celan: "’fiore", una parola di cieco. Se tu vuoi davvero vedere un fiore non devi vederlo, devi essere cieco. Così credo che questa cosa sia molto presente in Kafka, le sue rappresentazioni, le sue finzioni sono finzioni di cieco, in cui il mondo non è in gioco in quanto mondo; è in gioco in quanto argomentazione ed interrogazione continua su quello che può essere mondo e su quello che non può esserlo, diciamola così sennò ci porterebbe nel vago…

MP: Nell’ipotesi fantastica in cui lei avesse potuto intervistare Kafka, quale domanda gli avrebbe rivolto? In altre parole; c’è qualche lato dello scrittore che le è ancora oscuro e che la incuriosisce?

M: Gli avrei rivolto una domanda molto semplice, un pettegolezzo forse; gli avrei chiesto se lui davvero avesse amato Felice Bauer. Una persona che ha scritto tre lettere al giorno a questa donna conosciuta fugacemente una sera in casa di amici, con la quale costruisce questo fidanzamento assurdo, fatto soprattutto di corrispondenza. Sembra effettivamente che lui faccia di tutto per averla vicina tenendola a distanza, e mi domando spesso che strana forma d’amore possa essere questa. Le lettere a Felice sono un’opera letteraria di straordinario spessore. Gli avrei chiesto anche un’altra cosa. C’è un libro bellissimo dello scrittore israeliano Grossman, pubblicato quattro o cinque anni fa, si chiama Che tu sia per me il coltello - che è una frase che Kafka scrive a Milena, la seconda grande corrispondente amorosa. Milena era la sua traduttrice in ceco e tra loro nasce una storia d’amore che non è ben chiara ai biografi. Quello che avrei chiesto a Kafka è: "che cosa ti ha risposto Milena quando tu gli hai scritto quella frase (che mi pare tanto terribile quanto affettuosa)"? Questo mi piacerebbe sapere. Grossman scrive un libro per rispondere a questa domanda, che naturalmente non contempla alcuna risposta. Non deve esserci risposta, rimane intrigante così. Cosa può rispondere un’amante a questa "invocazione" al coltello, dopo che l’amato ha scritto un romanzo in cui il protagonista muore trafitto al cuore da un coltello da macellaio. Qui mi fermo, altrimenti dovrei, e mi piacerebbe, parlare a lungo di questo coltello, di questa straordinaria fantasia… Sarà per un altro incontro, spero. Grazie.

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