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I teatri del "disagio"

Il disagio sul palco
di Giada Gugliemi

Il disagio sul palco

di Giada Guglielmi


"L'arte è il più breve cammino da un uomo ad un altro" - diceva Paul Valery - evidenziando così l'importanza dell'arte come espressione di sé, come momento comunicativo alto ma soprattutto come momento di relazione. Tra tutte le arti, il teatro è quella che si fonda più direttamente nella relazione. L'accadimento teatrale è legato alla presenza fisica e contemporanea, nello stesso spazio e nello stesso tempo di due elementi, l'attore e lo spettatore. E' per questa sua natura di interazione umana che il teatro può considerarsi un arte relazionale. La relazione non si limita alla dinamica attore-spettatore, ma l'arte teatrale mette in atto numerose e altrettanto complesse dinamiche di relazione quali: attore-spazio, attore-colore, attore-forma, attore-suono, attore-attore che sono gli elementi base del farsi del teatro.

Il disagio nasce dalle difficoltà che, per motivi sociali o psichici, alcuni incontrano nell'esprimere se stessi in codici riconoscibili, nel creare, quindi una comunicazione vera che permetta di instaurare delle relazioni in positivo e, attraverso le relazioni, un ruolo. La diversità dall'altro, con le sofferenze che può provocare, fonda l'esistere dell'esperienza teatrale stessa, possibile solo nel distinguersi di un attore e di uno spettatore. Di fatto il disadattato è colui che non ha un ruolo e la costruzione di questo ruolo ci riporta sul "palco". Il teatro, infatti attraverso i sentimenti, può ricostruire un ruolo e un'apertura all'altro.

La presenza di una persona con disagi in scena è tuttavia un segno teatrale complesso.
Innanzi tutto è un frammento di realtà. Qualcosa che ha il sapore della vita vera, soprattutto dei sentimenti e delle emozioni che appartengono all'esperienza della vita. E l'autenticità della vita è data proprio dalla condizione di disagio dei protagonisti. L'Altro che è in scena non è la realtà che ogni giorno è sotto ai nostri occhi: i malati psichici, per esempio sono proprio quelli che nella vita di tutti i giorni non vediamo. Reali ma invisibili. E se li incontriamo casualmente agli angoli di una strada o in una stazione, ci fanno impressione, ci paioni "brutti".
La messa in scena di ciò che è socialmente occultato, sottratto è lo scandalo di questo teatro, è il suo maggior rischio, ma è anche il suo atto politico e civile più significativo, tanto più rivoluzionario quanto più ciò che ci viene mostrato modifica la nostra percezione della realtà e ciò che prima avremmo detto brutto ora ci pare bello o ce ne facciamo interrogare.
L'opzione per il disagio e per il margine non sono nuove al teatro, hanno radici antiche e spesso, tra Otto e Novecento, si sono intrecciate con la scelta del realismo. Ma la drammaturgia di cui parliamo non fa riferimento al teatro naturalista francese e neppure al realismo politico di Brecht, piuttosto ci fa pensare alle comunità teatrali degli anni '70 come il Living Theater, l'Odin Teatret di Barba e le esperienze Grotowskiane, il cui scopo dichiarato, non a caso era quello dell'azione sociale. Non è un caso nemmeno che gli esercizi e le dinamiche processuali usate negli odierni interventi nel sociale si rifacciano per lo più a quelle esperienze di gruppo.
Margine e disagio sono i luoghi dolorosi della crisi in cui ogni uomo si dibatte.
Nella pluralità dell'attuale fenomenologia teatrale, solo alcune esperienze artistiche si fanno carico del rapporto con il disagio. In realtà però una ricerca, nel campo del teatro come in altri campi, non è veramente tale se non si confronta con le diversità e con il disagio.
Storicamente il teatro nasce sul terreno delle diversità, riconosce la sua voce essenziale quando si esprime a partire dal margine dell'esistenza, perché è lì che si propone l'umanità sofferente, rifiutata. E' dunque da questo mondo rifiutato che può venire una testimonianza forte che fa della scena lo spazio dove ciò che è negato riappare. Il rimosso, quando ritorna, ritorna con un vivo rafforzamento di senso. In questa prospettiva il teatro è il luogo dove il male può essere riconosciuto, accettato, elaborato. Il teatro infatti parla della sofferenza del mondo, cosa che non sarebbe possibile senza il mistero della maschera e la scena. Kantor una volta disse che ciò che gli interessava era il mondo delle prostitute, dei ladri, dei malfattori…
Per tornare al disagio sul palco osserviamo che forse è la prima volta che tante persone, che non sono attori professionisti, trovano nel luogo del teatro la possibilità di raccontare in prima persona di sé e, attraverso di sé, di una condizione umana drammatica fatta di diversità. Solitudine, sofferenza, speranza, amore, follia, gioia. Con sé queste persone portano una verità non teatrale di grande impatto emotivo e comunicativo.

Ma dinanzi a questi spettacoli emerge un interrogativo: chi è l'attore professionista?
Attore, si dice, è colui che sa fingere perché ha una tecnica, per farlo negli anni ha messo a punto, in una scuola o laboratorio o quant'altro, un vocabolario e una competenza grammaticale e sintattica che gli consentono di usare il proprio corpo strumentalmente e di produrre una verità teatrale. Sugli sviluppi della tecnica (training fisico ecc.), su dove essa debba insistere (livelli preespressivi o sviluppo competenze emozionali), su cosa sia una verità teatrale (autenticità emozione dell'attore e relazione attore-spettatore ecc,) esistono varie scuole di pensiero. Ma in questi spettacoli l'attore non c'è, o meglio chi agisce in scena non possiede una competenza tecnica attoriale. La figura centrale in questo teatro del disagio è senz'altro il regista-drammaturgo che conduce il gruppo nell'esperienza della ricerca dei simboli durante la fase delle prove. Queste spesso consistono in una lungo periodo di improvvisazione aperta (spesso più di 40 giorni), talora totalmente libera oppure sollecitata in vari modi e misure quali musica, oggetti, più raramente testi verbali. La funzione principale del regista è in questa fase quella di osservare gli attori secondo quanto già avveniva nella pratica dell'improvvisazione del teatro di ricerca e sperimentazione degli anni Settanta e Ottanta. Molto spesso come raccontano i registi le cose più interessanti accadono nella vita, fuori dalla sala prove: un viaggio, la prima volta su un aereo possono far scaturire gesti o comportamenti che il regista nota e poi ripropone nel lavoro teatrale.

Ad un tratto il disagio va in scena e si racconta.
Spesso gli spettacoli parlano di chi agisce in scena, della loro condizione di persone al margine, o nel caso di disabili viene spesso raccontato il linguaggio e le emozioni di dolore e di amore di una condizione differente da quella "normale". Tuttavia appaiono più riusciti gli spettacoli in cui queste persone interpretano se stesse, o in cui danno corpo ad archetipi mitici. Più che di personaggi, in queste drammaturgie, ci troviamo di fronte a figure aperte, simboli drammatici a cui l'autenticità dei portatori di handicap, dei malati psichiatrici o dei detenuti, dà sostanza nutrendo la verità dell'arte con quella della vita. Certo è che la problematica di lavorare con persone che non sempre sono consapevoli della comunicazione che stanno mettendo in atto è sempre presente.

In molti di questi spettacoli, c'è un'intenzionalità comunicativa forte che si radica in un grande desiderio dell'altro e della relazione. Sono spettacoli capaci di provocare e di commuovere, raramente lasciano indifferenti. Aperti a riconoscimenti e spesso fraintendimenti e critiche sono comunque "rivolti a" e "fatti per" chi sta seduto in platea. In tutti questi spettacoli c'è una ricerca di segni, come quelli dei corpi, fatti di carne e segnati dalla vita vissuta.
Musica, danza parole, ma soprattutto corpi. Quello che più colpisce sono infatti i corpi. In alcuni casi si ha la sensazione che siano stati scelti dei corpi, non tanto delle persone. Anche quando il rapporto artista e attore è segnato dal rispetto e dall'amore per l'altro nella sua totalità di corpo-persona, in scena si vedono innanzitutto i corpi di queste persone, perché è nel corpo il segno della loro diversità. La vita li ha segnati con le sue marche e le sue ferite. In questo li sentiamo più simili a noi persone comuni rispetto ai soliti corpi ben misurati ed atletici degli attori tradizionali.
Sulle scene quei corpi li avvertiamo nudi, esposti, fragili, talvolta osceni.

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