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Narrativa
Poesia italiana
Recensioni
In questo numero:
- "Sempre ad est" di Massimo Acciai,
recensione di Liliana Ugolini
- "Un fiorentino a Sappada" di Massimo Acciai,
prefazione di Lorenzo Spurio
- "La metafora del giardino in letteratura" di
Lorenzo Spurio e Massimo Acciai, recensione di
Marzia Carocci
- "Flyte & Tallis: Ritorno a Brideshead ed
Espiazione, una analisi ravvicinata di due
grandi romanzi della letteratura inglese" di
Lorenzo Spurio, recensione di Emanuela Ferrari
- "Scrittrici in giardino: Profumi e colori
nei giardini di dieci scrittrici" di Adele
Cavalli, Recensione a cura di Lorenzo Spurio
- "Poesie tra le orchidee" di Massimo Grilli,
Recensione a cura di Lorenzo Spurio
- "Grecità marginale e suggestioni
etico/giuridiche: i Presocratici" di Ivan
Pozzoni
- "Gli invisibili" di Gianfranco Menghini
- "Flyte & Tallis" di Lorenzo Spurio
- "I giorni della preda" di Gianfranco
Meneghini
- "1800 una nuova era" di Gianfranco Meneghini
- "I cannoni di Jardine" di Gianfranco
Meneghini
- "Sangue caldo, nervi d'acciaio" di Arto
Paasilinna
- "Quando Ero Come Voi" di Marco Sambruna
- "Effetto giorno" di Maria Lenti
- "Polar 14" di Gianfranco Meneghini
- "L'uomo che uccise Dio" di Ennio Montesi
- "Zeroventicinque" di Fiorella Carcereri
- "Nel cuore della rosa" di Rosa Di Fiore,
recensione di Emanuela Ferrari
Articoli
Interviste
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Libertà
Antonio Carollo
Non fu una cena come le altre,
per me. L'atmosfera era distesa. Dopo gli spaghetti
col tenerume di zucchina, la mamma stava portando a
tavola il secondo, triglie fritte con insalata. Mio
padre mi guardò con un sorrisino, disse: "Che hai
fatto oggi?" Si era a metà giugno, niente scuola,
avevo trascorso il giorno a giocare con i miei
cugini ed altri amichetti. Gli dissi che ero stato
un po' in giro e che avevo eseguito alcune
commissioni per la mamma. "Ho capito, sempre a
giocare, però non sei più un bambino piccolo." Quel
discorso mi sembrò strano. Giocavo, sì, nelle ore
libere, ma a scuola ero un alunno diligente, il
maestro l'aveva detto alla mamma; in campagna,
d'estate, oltre ad eseguire dei lavoretti, come
innaffiare i fiori, contribuire ai rifornimenti
d'acqua andando a prenderla col secchio alla vasca,
portare il mulo al pascolo, lo aiutavo pure nella
raccolta delle pesche, nel ripulire il terreno dai
rami potati, nell'irrigare tratti di frutteto;
insomma svolgevo anche lavori da grandi, talvolta
con un pizzico di malumore per i suoi modi
perentori.
Mio padre era assai impegnato nella conduzione delle
sue proprietà e in iniziative commerciali; rari i
suoi gesti espansivi; il suo affetto per noi lo
dimostrava con le piccole attenzioni: per esempio,
portandoci le iris e i pasticciotti dai suoi non
frequenti viaggi a Palermo, le primizie dalla
campagna. "Domani rimarrò in paese, te la senti di
guidare mulo e carretto per Cozzo Corvo e ritorno?"
Rimasi come folgorato: un'intera giornata in
campagna in piena libertà! Farfugliai: "Sì, papà."
La mamma si fermò un attimo: "Potrebbe andarci Nino."
Mio fratello, dieci anni più di me, fece subito
segno di no con la forchetta in mano: "Domani ho
lezione all'Università". Era iscritto al secondo
anno di filosofia e mille miglia lontano dai
problemi di mio padre; viaggiava per Palermo, di
pomeriggio studiava in casa, la sera e le domeniche
si divertiva con gli amici al bigliardo o al
passeggio. Una volta presi in mano un suo libro,
l'autore era Santino Caramella, il titolo, se non
sbaglio, Lezioni di Estetica; l'aprii e lessi tre
righe: non ci capii nulla.
Mia sorella Giuseppina, che stava aiutando la mamma
a ritirare i piatti vuoti e a portare i secondi,
timidamente buttò lì: "L'accompagno io". Mio padre
la fulminò con uno sguardo. A quei tempi il posto
delle ragazze da marito era a casa, ad aiutare nei
lavori domestici, a ricamare il corredo al telaio;
uscivano solo con la mamma o con gli altri
familiari, per la messa domenicale e le altre
festività religiose, per visite ai parenti, per
battesimi, matrimoni.
Mio padre mi fece qualche raccomandazione, poi passò
a parlare delle sue ricognizioni negli uliveti e
delle aspettative di un buon raccolto, tempo
permettendo.
La notte sognai di cavalcare in groppa ad un focoso
cavallo lanciato al galoppo. Alle sei ero già in
piedi. In un batter d'occhio indossai camicia e
calzoncini; strinsi il cinturino, misi i calzini,
presi le scarpe in mano; attraversai in punta di
piedi la camera da letto; feci a due a due i gradini
della scala.
La mamma porgendomi un paniere disse: "Ti sei lavato
la faccia?", col capo risposi di sì, "In questo
tegamino c'è una frittata, poi ci sono un pezzo di
formaggio, un po' di olive, tonno sott'olio e pane.
Il pomodoro e la frutta li trovi in campagna. Al
ritorno questo paniere lo riempi di pomodoro maturo,
perché devo fare la salsa; ci metti pure qualche
pomodoro per insalata, un po' di pesche e susine e
qualche lattuga. Non tornare col paniere vuoto.
Quando finisci di mangiare lava i due tegamini e poi
li riporti. Non ti macchiare la camicia, anzi
prendine una vecchia dal cassetto del canterano di
campagna; la sera per il ritorno ti rimetti questa
qui. Non ti voglio vedere con la camicia sporca! Non
correre a rompicollo per i campi. Il nonno è già al
Cozzo Corvo, stai con lui."
Mi scrutò il volto: "Non ti sei lavato la faccia,
sei un bugiardo." Mi prese per un braccio e mi portò
in cucina, aprì il rubinetto: il getto di acqua
fredda mi fece rabbrividire. Mi strofinò il viso con
una certa energia. Secondo lei così lo sporco andava
via meglio; il fatto è che non faceva differenza tra
guance, naso e bocca. "Ahi, mi fai male, il naso
no". Forse non s'era accorta che non ero più il
ragazzino di quattro-cinque anni. Mi asciugò.
"Guardami negli occhi, ce la fai a sollevare le aste
del carretto?". "Mamà, l'ho fatto tante volte"
"L'hai fatto tante volte, però l'anno scorso nel
sollevare quelle del carretto degli zii sei caduto
bocconi per terra e ti sei spaccato un labbro. Non
so cosa gli ha preso a tuo padre; ti manda da solo
in campagna. Non capisce che sei un bambino." "Un
bambino? Ormai sono grande. So fare tutto." "Ti sei
fatto il segno della croce? La mattina appena
sveglio non dimenticare mai di fare il segno della
croce, hai capito?". "L'ho fatto, mamà." "E poi non
torturare le lucertole, anche loro sono creature di
Dio, come me e come te; non fanno male a nessuno".
"Ma Nino cattura i cardellini." "Sì, però non gli fa
del male, li mette in gabbia e gli dà la scagliola e
l'acqua." La mamma prese un pettine dal bagnetto di
cucina e mi sistemò i capelli. Mise sul tavolo la
tazza col latte e caffè e il pane."Mangia". "Mamà,
non ho fame." "Mangia lo stesso." Mi dovetti
accomodare e mangiare, ma fu questione di un minuto.
"Stai attento, non stare mai dietro al mulo;
potrebbe scalciare. Intesi?". "Mamà, sta tranquilla"
risposi prendendo il paniere e scappando via.
In pochi minuti fui alla stalla. Appena aperto Gemma
venne a scodinzolare tra le mie gambe: era una cagna
anzianotta, grigia, lenta nei movimenti. Ciccio,
anch'esso anziano e di pelo bianco, mi guardò, con
calma tirò fuori le zampe anteriori e si alzò.
Povera bestia, mio padre lo ammazzava di lavoro, lo
adibiva per tutti i trasporti e in autunno gli
toccava tirare anche l'aratro. Gli strofinai un
fianco con un pugno di paglia per pulirlo dello
sporco prodottosi dormendo per terra. Dopo avergli
tolto la cavezza gli misi la testiera; lo portai
fuori con i finimenti addosso; abbassai le aste del
carretto parcheggiato accanto alla porta d'ingresso;
feci indietreggiare il mulo tra le due aste, con
qualche difficoltà; riuscii a fermarlo al punto
giusto per posizionare le punte delle aste in linea
con i ganci del sellino. Alzai l'asta, non senza
fatica, mingherlino com'ero. Con mossa rapida feci
entrare il gancio nell'anello di ferro dell'asta,
per fortuna al primo tentativo. Ripetei l'operazione
sull'altro fianco con relativa facilità. Gemma non
si perdeva nulla di questo mio lavorio. L'operazione
più difficile era riuscita. Fermai i due tiranti
alla base delle aste. Fatto. Chiusi la porta, presi
il paniere di mia madre e saltai sul carretto.
Redini e frusta in mano. "Andiamo Ciccio". Gemma
camminava di sotto, tranquilla.
Al Corso mi unii alla teoria dei carri in uscita dal
paese verso la campagna. Qualche conduttore mi
salutò con la mano e un mezzo sorriso: un carretto
guidato da un ragazzino in pratica non impressionava
nessuno; meno male. Dopo la sosta all'abbeveratoio
varcammo quel che rimaneva della porta del paese,
demolita a cannonate dai soldati americani. Al
passaggio a livello il colpo d'occhio del panorama
dei giardini, delle colline, del mare, fino alle
Torri, Porticello e Capo Zafferano. Cominciammo la
breve discesa della tonnara. Il mare era immobile,
colore azzurro-pallido. Dei barconi, lunghi e
massicci, erano ancorati nello specchio d'acqua
davanti ai capannoni della tonnara, pronti a
raggiungere la zona della mattanza per imbarcare i
tonni finiti nelle camere di cattura. Il disco
solare, poco sopra l'orizzonte, già rifletteva la
sua luce sulla superficie del mare; la torre del
castello, in primo piano, si stagliava sullo sfondo
delle Madonie.
Ai Pilieri svoltammo per la strada di Sant'Onofrio.
Il passaggio a livello era chiuso; le due sbarre di
ferro accostate ai battenti. Non si vedeva anima
viva; dopo un bel po' una donna coi capelli grigi
che uscivano da un berretto a visiera rigida prese
un'asticella con bandiera e si mise impettita, come
per l'attenti. Da lì a qualche minuto, annunciato da
un fischio, passò un treno passeggeri. Con calma la
casellante venne ad aprire la sbarra. Ciccio si
mosse. La strada cominciò a salire. Sulla stretta
stradella per Cozzo Corvo cinque-sei cani corsero
verso di noi abbaiando; venivano dalla casa colonica
poco lontana; si fermarono ad una decina di metri
dal carretto. Le stoppie della Salina, inondate di
sole, erano un tappeto dorato; nugoli di passeri vi
si posavano per beccare i chicchi di grano rimasti;
in fondo la sagoma della trebbia.
Poi la breve salita e il piacere di vedere emergere
lentamente la nostra casa, secondo il passo di
Ciccio, prima il tetto di tegole rosse e i muri, poi
il marciapiede che sembrava una terrazza perché
protesa su un terreno in pendio, la rigogliosa
pergola d'uva, il rosso delle rose, il bianco dei
gigli. La costruzione disponeva di quattro vani, del
soggiorno con cucina, due camere, una cameretta e un
solaio per la paglia e il fieno; sul lato est la
tettoia con la mangiatoia; il mare a quattrocento
metri.
Eravamo arrivati. Ciccio si fermò sotto la tettoia;
dopo aver sganciato il carretto, gli sfilai i
finimenti e li appesi ad un grosso chiodo; presi da
un canto un piolo, un martello, una fune e mi tirai
dietro per la cavezza il mulo: destinazione stoppie.
Gli ulivi erano invasi da trilli di usignoli,
cardellini, passeri. Lasciata l'ombra degli alberi
uscimmo al sole delle stoppie. Gemma ci seguiva.
Piantai il piolo sul terreno con cinque colpi di
martello, vi legai un capo della fune, l'altro capo
a una caviglia di Ciccio a cui tolsi la cavezza.
La trebbia, piazzata a qualche centinaio di metri,
aveva avuto subito successo: in pochi minuti compiva
il lavoro di giorni della vecchia pisatina sull'aia.
Mi avvicinai. Intorno alla macchina, azionata dal
motore di un trattore, c'era un gran movimento:
carretti arrivavano carichi di covoni, altri
partivano con i sacchi pieni di grano, altri ancora
stavano in sosta; gruppetti di uomini coi tridenti
avviavano gli steli sul nastro mobile, caricavano
sacchi e balle di paglia; da un tubo il grano pulito
scorreva nei sacchi; il tutto in mezzo ad un rumore
frastornante. Uno scritturale col faccione sudato,
gli occhi piccoli, era seduto su una sedia malandata
davanti ad un tavolo sotto una capannina rimediata
con paletti e travetti di tronchi d'albero e
cannicci come tetto; annotava su un brogliaccio le
partite trebbiate, le quantità e i compensi. Un
addetto controllava il funzionamento delle varie
parti della macchina.
Scorsi mio zio Totò insieme con un suo bracciante
tra i carretti fermi in attesa del loro turno. Era
un uomo di mezza età, un po' più alto della media,
in testa un cappello di paglia. Lo salutai. "E tu
che ci fai qua?", mi disse sorridendo. Risposi un
po' imbarazzato: "Niente, ho legato al pascolo il
mulo qua vicino e sono venuto a vedere." Lo zio
aggiunse: "Bene, bene, vedi?, con la trebbia si fa
presto ma si suda lo stesso." Un pensiero mi
attraversò la mente: io da adulto a faticare così?
Bella la campagna, ma a morirci di fatica no. Mi
balenò la figura di Nino, trattato in casa come un
signorino. Si avvicinarono degli uomini coi quali lo
zio si mise a confabulare. Salutai e chiamai Gemma,
che dormiva sotto un carretto.
Cominciai a correre tra le stoppie. Udii un
improvviso rumore di frasche smosse; intravidi un
serpentello blu scuro di circa un metro: stava
filando via velocemente; Gemma si lanciò su di lui
cercando di azzannarlo, ma quello scivolò via in una
crepa del terreno. La cagna, trafelata, fece due
balzi, poi cominciò a scavare con le zampe
anteriori. Quei serpi mettevano un po' di paura.
Proprio per questo a volte, i miei cugini ed io, li
sfidavamo andando a stanarli con una canna in mano
da certi mucchi di legna e ramaglia; scappavano
velocissimi; quasi mai ci riuscivamo a infilzarli.
Raggiunsi la casa del nonno distante un centinaio di
metri da quella di mio padre; lo trovai seduto sul
sedile a muro che discorreva col suo vicino di
podere Piddo, fermo nella stradella sul suo
carretto. Parlavano dell'annata che si presentava
promettente sia per le olive che per le uve da vino.
Il nonno, piuttosto in carne, aveva le gambe
semiparalizzate da artriti e dolori: si muoveva a
piccoli passi con estrema difficoltà e con l'aiuto
di bastoni. Nella sua casa di Trabia stava quasi
sempre piantato su una sedia; in campagna, invece,
lentamente e con fatica, ogni mattina faceva un giro
nel frutteto, zappettando e tagliando dei rami qua e
là con una accettuola; dava anche una mano nella
preparazione delle ceste delle pesche che venivano
trasportate al mercato ortofrutticolo di Palermo.
Per le coltivazioni e le raccolte dei prodotti
provvedevano i miei tre zii scapoli tornati dalla
guerra l'anno prima. Nonostante il dolore per un
figlio perso in guerra era sempre accogliente,
gioviale e un avvincente raccontatore di storie.
Certe sere d'estate sotto la pergola alla luce di un
lume a petrolio, seduti in circolo davanti a lui,
raccontava dei suoi viaggi da giovane in paesi
lontani, come Bivona, Cianciana, Vallelunga,
Casteltermini; vi si avventurava in sella al suo
mulo per vendere grossi pezzi di tonno acquistati
alla Tonnara del Principe Lanza.
Salutai: "Vossia mi benedica". "Dio ti benedica",
rispose il nonno, contento di vedermi. Zu Piddo
scrollò le redini sul dorso del suo asinello e
s'avviò col suo carretto traballante sull'ineguale
selciato della stradella. "Ti saluto, Mariano." "Ti
saluto, Piddo". Il sole era già alto, la pergola ne
filtrava i raggi. Il nonno chiese di mio padre,
quando gli dissi che ero venuto da Trabia da solo
guidando mulo e carretto mi guardò con simulata
meraviglia e disse: "Bene!"
Mi fece sedere accanto a sé: "Hai portato il mulo al
pascolo?" "Sì, nonno." "Oggi tuo padre ti ha dato
una bella fiducia, ma la fiducia va meritata, non si
può deludere; l'uomo che non adempie i propri doveri
non vale una cicca." Prese da un paniere una
manciata di ciliegie e me le mise nelle mani. Gli
dissi: "Nonno, so come badare a Ciccio: a
mezzogiorno lo faccio bere e lo metto al fresco
nella stalla, il pomeriggio lo riporto alle stoppie
e la sera l'attacco al carretto per ritornare a
casa."
Andai in cima alla collina arrampicandomi sui grandi
massi di roccia da cui si godeva un panorama
mozzafiato a 360 gradi, l'intero golfo, da Capo
Zafferano alla Rocca di Cefalù, Monte San Calogero,
Monte Cameccia, le colline di Burgio, Spina Santa,
Antoniacci, Sant'Onofrio e la maestosa catena dei
Monti del Rovetto: un tripudio di boschi, di
oliveti, di vigneti e, sulla costa, di
lussureggianti giardini. Mi diedi alla caccia dei
conigli selvatici seguendo tra gli ulivi con la
cagna le tracce dei loro escrementi; ne vidi solo
uno ad una certa distanza, mi guardò un attimo e
filò via. Girando per il frutteto feci una
scorpacciata di albicocche, susine e pesche. Alla
vasca Ciccio bevve tanto, in due riprese; il caldo
non scherzava; gli rinfrescai la faccia con manate
d'acqua. Per Gemma avevo portato un secchio d'acqua
sul marciapiede di casa, all'ombra della pergola
d'uva. Io, sudato, facevo delle puntate in casa per
bere dalla brocca di terra cotta riempita
all'abbeveratoio di Trabia. Non mangiai tutto quello
che mi aveva dato la mamma, ero pieno di frutta; gli
avanzi, pane, una parte della frittata, un po' di
formaggio, li diedi a Gemma, che, in attesa
impaziente, seguiva le mie mosse leccandosi le
labbra.
Ritornai dal nonno, era a letto, russava alla
grande; i miei zii erano a lavorare in altre
proprietà, la stalla era vuota. Mi sdraiai
sull'ampio sedile in muratura, avevo ancora mezza
giornata da passare in libertà; mi sarei divertito
di più se avessi trovato qualcuno dei miei cugini. -
Che faccio? … farò il bagno al mare - ; l'idea mi
elettrizzò; negli altri anni l'avevo fatto sempre
con i miei, fratello e sorella, e le zie Rosa e
Nené; da solo mai. Adesso avevo dieci anni, c'era da
attraversare la ferrovia, ma l'avevo fatto altre
volte, bastava stare attento al passaggio dei treni.
I pochi scogli davanti al vallone di Pilieri erano
tutti affiorati per la bassa marea; da un lato la
spiaggia, sabbiosa, disegnava un'ansa, fino al
Castello di San Nicola con la sua torre cilindrica e
le mura merlate; dall'altro l'arenile filava fino
alla Vetrana, dove spiccava la piramide del mausoleo
dei marchesi Artale; ai margini fitti canneti e
qualche rara casupola.
Un pescatore, con i piedi in acqua, a qualche metro
dalla spiaggia, con abile gesto a girare, gettò in
mare il suo rizzaglio; rimase immobile qualche
minuto, poi lo tirò indietreggiando fino alla
spiaggia. Sembrava non essersi accorto di me.
Cominciò a staccare ad uno a uno i pesci impigliati
mettendoli dentro un cesto foderato di foglie di
fichi; c'erano scorfani, saraghetti, due triglie e
diversi pesciolini. "Bella pesca", azzardai. "Così e
così; non c'è granché", rispose senza neanche
guardarmi. Aveva la barba di più giorni, i capelli
folti e bianchi, la fronte tutta rughe, la bocca
sdentata, il viso scavato e bruciato dal sole e dal
salmastro; indossava una maglietta grigia piuttosto
logora e dei pantalonacci rivoltati alla caviglia,
tenuti da una cordicella."Di chi sei figlio?", mi
chiese. Glielo dissi. "Ah, c'ho lavorato con tuo
padre. Brava persona." Si girò verso di me: "Alla
mia età che c'è da fare, passo il tempo e porto
qualcosa a casa. Sempre nell'onestà."
Un lieve mormorio saliva dall'acqua. Chiamai Gemma e
mi misi a correre sulla battima; per un po' lei mi
corse dietro giuliva, poi, stanca, cominciò ad
arrancare. Mi liberai dei calzoncini e della camicia
e in mutandine mi buttai in mare a pesce. Gemma
rimase ferma a guardarmi, aveva paura dell'acqua.
Nuotai per un buon tratto, poi mi misi supino, a
tavola morta, muovendo leggermente i piedi. A un
centinaio di metri due ragazzi in mutandoni
sguazzavano nell'acqua, s'inseguivano, si
schizzavano, ridevano. Presi Gemma per il collare,
la portai a forza in acqua, la strofinai un po' e la
lasciai tornare a riva, dove si scrollò e si voltolò
nella sabbia. Nuova immersione: stavolta la portai
lontano, dove non toccavo più; lei nuotava veloce,
con tutt'e quattro le zampe: se la lasciavo,
immancabilmente prendeva la direzione della
spiaggia; la costrinsi più volte a cambiare rotta,
infine la mollai e tornò ad asciugarsi nella sabbia.
Passai più di un'ora in acqua e a correre sulla
spiaggia. Poi mi sfilai le mutandine e mi vestii; il
pescatore era sempre lì. Per un viottolo appena
tracciato tra le canne, con Gemma dietro, fui subito
sulla statale. Da lì vedevo, a mezza costa della
collina, la casa nostra e quella del nonno. Con la
ferrovia ce la cavammo bene.
Prima del tramonto ero già pronto col mulo e il
carretto e il paniere colmo di frutta e verdura.
Andai di corsa a salutare il nonno, che rimaneva a
dormire in campagna; non gli dissi della gita al
mare. Mi raccomandò di fare attenzione.
Dal Cozzo Corvo a Trabia quattro chilometri, un'ora
di viaggio. Mio padre a volte, durante la
traversata, attaccava, a bassa voce, con le sue
nenie del carrettiere: lo ascoltavo in silenzio; io
conoscevo solo qualche canzoncina, tra cui Lili
Marleen e C'è una strada nel bosco. Comunque non
m'azzardavo adesso a cantare, con tanta gente sui
carretti e in sella avanti e dietro a me. Ripensavo
allo zio, indaffarato e rotto a tutte le fatiche dei
campi, e a mio fratello, sempre vestito a puntino …
Ma dovevo finire la mia grande giornata.
All'abbeveratoio saltai giù per muovere l'acqua
della vasca davanti a Ciccio. Il conducente del
carretto accanto, un amico di mio padre, mi guardava
con un sorriso di approvazione. Sul Corso mi sembrò
di sfilare in una parata, tenevo il busto eretto e
maneggiavo con disinvoltura redini e frusta.
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