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Libri a fumetti
Cinema
In questo numero
presentiamo:
Prometheus
di Mario Gardini
Ribelle - The brave
di Mario Gardini
Skyfall
di Mario Gardini
Vendetta e pietà
di Maria Antonietta Nardone
Fotografia
Insert coin
In questo numero:
Cacciatori di tutto il mondo, unitevi
Borderlands 2
LittleBigPlanet PSVita
Booktrailer
Booktrailer
Arte contemporanea
Miti mutanti 18
Un artista a
Coverciano 4
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In questo numero...
PROMETHEUS
di Ridley Scott
con Noomi Rapace, Michael Fassbender, Charlize
Theron
2012 - USA
Le aspettative erano davvero alle stelle, e non solo
perché si trattava di un film girato nello spazio:
Ridley Scott, regista del primo "Alien", tornava a
dirigere il prequel della più famosa saga di
fanta-horror della storia del cinema.
Il mercato americano aveva risposto con ottimi
incassi e molte critiche favorevoli lasciavano
sperare in un prodotto che valesse l'attesa di quasi
15 anni (tanti infatti sono passati dall'ultimo
capitolo "Alien 4. La clonazione").
E invece… la delusione più totale.
Al di là della realizzazione tecnica, degli effetti
speciali e della scena in cui la dottoressa Shaw si
autopratica un cesareo, tutto il resto del film è
lento, lungo, noioso e privo di qualsiasi pathos.
Forse, se fosse stato un film a sé senza i suoi
predecessori, gli avrei dato una tiepida
sufficienza.
Ma così no. Così viene voglia di dare retta al robot
David (Michael Fassbender) il quale afferma che "per
poter ricominciare bisogna prima distruggere",
obbligando Scott a bruciare questa pellicola (da lui
prodotta) e tornare dietro al macchina da presa per
regalarci un Alien 5 con la nostra amata, venerata,
idolatrata e mai dimenticata Sigourney "Ripley"
Weaver.
Nel 2093 una nave spaziale denominata Prometheus
vaga nello spazio alla ricerca delle origini
dell'uomo.
L'equipaggio è di varia natura: c'è chi lo fa per
soldi, chi per fede, chi perché sta per morire e
spera di guadagnarsi il dono della vita eterna.
Giunti su un pianeta artificiale, la spedizione si
trova subito a dover combattere contro strane
creature che iniziano a decimare l'equipaggio.
La dottoressa Shaw (Noomi Rapace) e suo marito Peter
(Guy Pearce) sono in cerca degli Ingegneri, ovvero i
precursori dell'umanità da cui sono convinti di aver
ricevuto un invito dopo aver scoperto in una grotta
scozzese un'antica mappa.
Strada facendo si scopre che gli Ingeneri, in
realtà, avevano creato queste strane creature per
distruggere l'umanità.
Sul Prometheus, nonostante la sterilità della donna,
i due concepiscono uno strano essere a forma di
calamaro dopo che a Peter viene fatta inghiottire
una strana sostanza.
Dopo tempeste magnetiche, schianti di astronavi e
strani vasi che sembrano anticipare le future uova
stile Fabergè degli alien, si salverà solo la
dottoressa la quale, insieme a quello che resta del
robot David, partirà alla ricerca di nuove
spiegazioni.
Il calamaro partorito dalla donna, alla fine del
film, assalirà ed inseminerà l'ultimo degli
Ingegneri, dal cui ventre nascerà il mitico Alien
creato nel 1979 dal Premio Oscar Carlo Rambaldi.
Speriamo vivamente che non ci sia un sequel di
questo prequel, come invece le premesse lascerebbero
temere.
La regia di Scott è priva di verve e anche gli
attori sono per lo più decorativi.
Brava Charlize Theron, che supervisione la missione
stellare con l'aria algida e stronza che ormai
Hollywood le ha appiccicato addosso da parecchi
film.
Michael Fassbender, attore bello e ambiguo reso
famoso da film come "Shame" e "X-Men - L'inizio",
nel ruolo dell'androide è sufficientemente
inquietante mentre la svedese Noomi Rapace è
insopportabile nel ruolo di Elizabeth Shaw. Lasci lo
spazio e torni a fare la tatuata Lisbeth Salander
nella trilogia Millennium di Stieg Larrson.
Noi vogliamo indietro Sigourney. E pure il gatto
Jones.
Mario Gardini
* * *
RIBELLE - THE BRAVE
di Mark Andrews e Branda Chapman
con Kelly McDonald, Julie Walters, Emma Thompson
2012 - USA
È un film molto più Disney che Pixar questo "Ribelle
- The brave", anche se vanta la produzione del
famosissimo marchio con la lampadina al posto della
I.
Infatti la storia della principessa scozzese che si
rifiuta di sposarsi per ragioni di Stato richiama
moltissimo altre sue colleghe Disney come Belle,
Jasmine e Pocahontas.
Merinda, principessa scozzese dalla bellissima folta
chioma rossa, è un'arciera provetta che non accetta
l'educazione troppo rigida e "old style" di sua
madre, la regina Elinor (nell'originale doppiata da
Emma Thompson).
Sua madre ha deciso che Merinda deve sposare il
figlio di una delle tre tribù amiche per riunire il
regno frazionato, in tempi antichi, da un antenato
facinoroso e violento.
Durante la festa di fidanzamento, Merinda sfida i
tre pretendenti al tiro con l'arco e, sotto mentite
spoglie, partecipa alla gara anche lei, vincendo e
rivendicando così il diritto a sposare se stessa.
Succede il pandemonio. La lite con sua madre tocca
vette drammatiche e la ragazza, in fuga dal
castello, insegue i fuochi fatui fino alla capanna
di una strega.
Qui otterrà una pozione in grado di far cambiare sua
madre.
Peccato che il cambiamento sia molto radicale, tanto
da trasformare la povera regina in un orso.
Braccata dal marito, convinto che si tratti della
bestia che anni prima gli strappò una gamba, Elinor
può contare solo sulla figlia che, con
determinazione e coraggio, riesce a rompere
l'incantesimo, a liberare il regno da un pericolo di
lunga data e far capire a tutti, a cominciare da sua
madre, che nella vita ognuno deve essere libero di
fare le proprie scelte in maniera autonoma.
Diciamo subito che questo "Ribelle - The brave" non
è un capolavoro di quelli a cui ci ha abituati fin
qui la Casa di John Lasseter.
Da un punto di vista grafico, è stupefacente.
Ormai le espressioni del viso sono perfette anche
per i personaggi umani, cosa che fino a qualche film
fa era assolutamente impensabile.
I paesaggi sono bellissimi e fanno venire voglia di
andare in Scozia a perdersi in mezzo a prati verdi
infiniti, cascate purissime e magnifiche foreste
ricche di magici dolmen.
Anche la musica in stile Enya è azzeccata e molto
coinvolgente.
È proprio la sceneggiatura che lascia un po' a
desiderare.
La storia dell'orso è un po' troppo simile a quella
di "Koda, fratello orso" ed anche la gara di tiro
con l'arco ricorda molto quella di "Robin Hood".
Il successo in Patria è stato comunque importante
(più di 230 milioni di dollari di incasso) e nel
resto del mondo potrebbe seguire la stessa sorte.
Però rimane un vago senso di insoddisfazione,
totalmente sconosciuto di fronte a film come "Mostri
& Co" e "Toy story".
Decisamente più interessante ed originale è il corto
proiettato prima del film, intitolato "La luna" e
realizzato da un italiano, Enrico Casarosa.
Very proud of him.
Mario Gardini
* * *
Skyfall
di Sam Mendes
con Daniel Craig, Judi Dench, Javier Bardem
2012 - Regno Unito e USA
James Bond festeggia i suoi primi 50 anni e ritorna
ad essere un vero 007.
Nel senso che, messi da parte strani marchingegni e
trame piene di buchi, finalmente assistiamo ad un
film del più famoso agente segreto del mondo al
servizio di Sua Maestà degno di tal nome.
Non che, con questo, manchino spettacolari
inseguimenti o scene mozzafiato, tutt'altro. Solo
che il tutto è condito con una dose di umanità ed
intelligenza ben superiore alle sceneggiature degli
ultimi anni.
Daniel Craig è di sicuro il migliori Bond dopo
l'originale Connery, e la sua presenza in scena,
calibrata ed elegante, ci fa accettare con un
sorriso anche i controsensi di una storia che ha più
di una lacuna.
A cominciare da un volo dal tetto di un treno con
tanto di pallottola in corpo e conseguente bagno
nelle cascate con mezzo affogamento a cui il nostro
eroe sopravvive.
Come, non ci è dato a sapere.
Ma che importa. Arriva Adele, la cantante british
più "cool" del momento (che in realtà è la brutta
fotocopia di Alison Moyet) con una canzone fatta
apposta per piacere, partono i titoli di testa
(sempre spettacolari) e voilà… siamo già tutti
complici del gioco.
Bond è morto poi non è morto. In cambio c'è qualcuno
che si è rubato il file con il nome di tutti gli
agenti sotto copertura e sta iniziando a pubblicarlo
su internet, mettendo in pericolo la vita degli
agenti.
Il Quartier Generale salta per aria e non ci vuole
molto per capire che il vero obiettivo è M (la
sempre splendida Judi Dench).
Il colpevole si chiama Silva (Javier Bardem) ed è un
ex agente segreto che dalla signora fu scaricato
anni addietro e, dopo aver subito cinque anni di
torture in Afghanistan, oggi reclama la sua giusta
vendetta.
Raccontando allegorie su due topi sopravvissuti,
Silva porta sia lui che Bond a combattere per quella
M(adre) che il capo del MI6 rappresenta per
entrambi, mentre la stessa M finisce sotto giudizio
da parte del Ministro per aver fallito nel suo
operato.
La resa dei conti finale si tiene a Skyfall, casa
avita della famiglia Bond, in cui il nostro eroe
assomiglia sempre di più a Bruce "Batman" Wayne che,
al posto del fido Albert, ritrova un ex
guardiacaccia che lo aiuterà (Albert Finney, altro
grande mito dello schermo).
Finale edipico e strappalacrime che però dà inizio a
un nuovo ciclo nella saga di 007, con l'arrivo del
bel Ralph Fiennes.
Insomma, come avrebbe detto Troisi… ricomincio da 23
(tanti sono i film di James Bond fatti fin qui).
Il regista è quel Sam Mendes che, più di dieci anni
fa, ci raccontò il declino della famiglia media
americana in "American Beauty".
Di Craig ho già detto, anche se i due veri mattatori
del film sono l'austera Dench e Bardem, che si tinge
i capelli per impersonificare un cattivo che a
tratti somiglia un po' troppo ad Hannibal Lecter.
Le due belle di turno passano abbastanza rapide ed
inosservate sia nel letto di Bond che sullo schermo
(anche se Bérénice Marlohe è uno spettacolo) mentre
la palpatina di Bardem apre nuovi scenari nella vita
da latin lover della spia inglese.
Frase da portare a casa: "Giovinezza non è garanzia
di innovazione".
* * *
Vendetta e pietà
di Maria Antonietta Nardone
"Pietà"
di Kim Ki-duk
con Lee Jun-jin, Cho Min-soo
Film tanto bello quanto duro, durissimo. Come il
tema trattato: l'usura, la forza malefica del
denaro, certe forme di capitalismo super-aggressive
che spazzano via tutto, persone e interi quartieri.
E come lo stile adottato: violento, a tinte forti e
nette. Eppure capace di creare immagini di grande,
struggente bellezza e di far emergere momenti di
poesia purissima.
In pochi giorni il regista sud coreano Kim Ki-duk ha
girato un film potente, con momenti di profondità
finissima e con un tocco unico; davvero
originalissimo. Non si è avvalso di produzioni
faraoniche per descrivere l'abiezione a cui può
portare il denaro, il bisogno di denaro o l'avidità
di denaro (già, il denaro, questa allucinazione
collettiva dell'inizio del ventunesimo secolo e non
solo). In un quartiere miserrimo di Seoul, tutto
calcinacci e muri sventrati, ha il suo piccolo e
sporco rifugio un giovane solitario, Kang-do. Ogni
mattino, indossa il suo giubbotto, jeans e scarpe,
tutti rigorosamente firmati, e va a riscuotere gli
interessi decuplicati di prestiti fatti ad artigiani
che lavorano in officine che sono bugigattoli pieni
di ferro, tubi e cianfrusaglie, per conto di un boss
del luogo, un insospettabile uomo d'affari in giacca
e cravatta. Freddo e privo del più lontano
sentimento di pietà e/o di compassione (alla
buddhista dacché si è in un paese, la Corea del sud,
che è a maggioranza buddhista), è inesorabile nel
rompere gambe, infilare bracci in una morsa
d'acciaio o mani in una pressa. L'assicurazione per
quello che verrà rubricato come un incidente,
salderà il debito dello "sfortunato" artigiano. Il
giovane Kang-do procede in questa sua esistenza di
macchina-recupa-soldi senza consapevolezza, senza
pensiero, senza provare sentimenti per alcuno; di
notte si masturba contro un cuscino, e in questo
onanismo si esaurisce tutto il suo calore e la sua
assenza di relazioni affettive.
In questa vita anaffettiva e monotona irrompe una
donna matura, Mi-sun, che lo segue fino a casa, fin
dentro casa. Il giovane, all'inizio, la tratta
malissimo, com'è sua consuetudine in ogni relazione
con il prossimo. La tenacia dolcissima e paziente
della donna, che gli rivela di essere la madre che
lo ha abbandonato appena neonato, perché all'epoca
giovanissima, vinceranno a poco a poco la dura
scorza di violento esattore di prestiti, non prima
di averla sottoposta a più "prove", tra cui uno
stupro da lui stesso perpetrato, e psicologicamente
tremendissimo (una scena che turba più delle ossa
spezzate, di cadute da palazzi, di accoltellamenti,
di schiaffoni sonori ed altre violenze di cui il
regista non risparmia lo spettatore dall'inizio alla
fine del film senza tregua), come ulteriore prova
dell'autenticità della sua maternità.
La tenerezza e l'accudimento di questa donna
apriranno un varco ai sentimenti di Kang-do, il
quale, così, però, avrà molti problemi a svolgere il
suo "lavoro" come prima. Perduta la sua
impermeabilità, comincia a "sentire" la sofferenza
di quegli uomini a cui va ad estorcere denaro;
comincia a "comprendere" le motivazioni che li
spingono a chiedere soldi ad un usuraio e questo gli
impedirà di rompere gambe e braccia come faceva
prima con meccanica efficacia. Anzi, si insinua in
lui una buia paura; la paura della vendetta, la
paura che qualcuno dei mutilati possa vendicarsi
facendo del male a sua madre lo porta a sua volta a
provare quella sofferenza in passato inferta ad
altri. Il momento in cui, quando crede che qualcuno
stia minacciando di buttare la madre dall'alto di un
edificio, offre la sua stessa vita al posto di
quella della madre, ebbene questo è il momento in
cui si è davanti ad un cambiamento indubbio, davanti
ad un'anima totalmente cambiata e rinnovata. E in
quello stesso momento la madre, Mi-sun (che in
realtà non è sua madre, ma la madre di un giovane
che, costretto sulla sedia a rotelle da uno dei suoi
tanti pestaggi, si suicidò e lei, per vendetta, si è
spacciata per sua madre per poi abbandonarlo, sia
pure con la morte, per fargli sentire prima il
calore dell'amore materno e poi il dolore per la
perdita dell'amore materno) ebbene in quello stesso
momento, proprio mentre sta per concludere la sua
vendetta, ha un moto di pietà per quel giovane, che
non è suo figlio, ma che sta offrendo la propria
vita in cambio della sua; e proprio davanti alla
sofferenza e al cambiamento di Kang-do, la donna ha
un'esitazione prima di portare comunque a termine il
suo piano. Si getta dall'alto dell'edificio e muore.
E mortale sarà il dolore di questa nuova anima, che
non riesce a fronteggiare questo abbandono. Incapace
di riprendere la sua vita di prima, Kang-do si lega
di notte al furgoncino di una donna, di cui aveva
mutilato il compagno, e si lascia trascinare, a sua
insaputa, sull'asfalto della strada all'alba di un
nuovo mattino mentre si alzano le note e le voci di
un miserere nobis con tanto di kyrie eleison. Che
senza quella spietatezza, ormai, non si possa più
vivere? Questo sembra suggerire o domandare questa
storia che è anche una chiara rappresentazione ed
un'inequivocabile critica di un modello economico
feroce che ha il potere di azzerare ogni sentimento
e ogni pensiero squisitamente umani.
Vendetta, amore e assenza d'amore, denaro, pietà e
assenza di pietà; il tutto narrato con inquadrature
splendide, davvero memorabili. Anche se le scene, mi
ripeto, sono durissime (diamine se si soffre o si
abbassa gli occhi durante tutta la visione!). Mentre
Seoul, vista da questo quartiere cadente, fatto di
vicoli scuri e di immondizia, botteghe dietro le cui
saracinesche si aprono arzigogolati macchinari e
ferraglia varia e attraverso cui si muovono
individui, vecchi e giovani, che proprio non ti
immagini possano vivere o muoversi in quei tuguri
(questo per chi non conosce l'Asia), è il terzo
personaggio del film; i nuovi, altissimi e lucenti
grattacieli che svettano sul cielo della città si
mangeranno anche questo vecchio quartiere di edifici
scrostati e sventrati, ma nel quale per anni e anni
si è svolta la vita di migliaia di persone che hanno
costruito la loro vita e la loro storia. È come se
il regista salutasse e ringraziasse questo quartiere
prima che la voracità dei palazzinari asiatici lo
annienti e lo faccia scomparire dalle mappe della
città.
Bravissimi i due attori: Lee Jun-jin, che interpreta
il giovane Kang-do, e Cho Min-soo, che interpreta
una figura di madre indimenticabile nella sua
determinata volontà di vendetta e involontaria
educatrice ai sentimenti e alla compassione. Perché
il provare compassione (soffrire con) passa anche
per un'educazione alla compassione e si ritrova fin
dal primo film di questo sorprendente regista, il
bellissimo e folgorante "Primavera, estate, autunno,
inverno… e ancora primavera" dove c'è quell'episodio
illuminante del pesce, della rana, del serpente e
del bambino. L'educatore, in quel caso, era un
vecchio monaco buddhista.
Un bambino studia per diventare monaco in una
casa/tempietto posta in mezzo ad un lago ed è
seguito da un vecchio monaco, il suo maestro. Nella
scoperta del mondo il bambino si trova a
sperimentare anche piccole forme di sadismo,
naturalmente inconsapevole. Per gioco e per piacere
lega un sassolino prima ad un pesce poi ad una rana
infine da un serpente ridendo dell'impaccio che i
tre animali provano nel nuotare o nel muoversi. Il
vecchio maestro lo vede. Di notte, lega al bambino
una pesante pietra. Al mattino, dopo un breve
dialogo chiarificatore, il maestro così lo
ammonisce:"Se hai sbagliato, devi porvi rimedio" e
poi "se anche uno solo dei tre animali è morto,
porterai questa pietra sul cuore per tutta la vita".
Il bambino sperimenta così lo sforzo e la fatica di
muoversi con quel pesante fardello sulla schiena.
Quando va a togliere il sasso al pesce, lo trova
morto. Seppellisce il pesce. La rana, invece, è
ancora viva. La libera del sasso con cui l'aveva
legata. Il serpente giace in una pozza di sangue,
senza vita. Il bambino comincia a piangere, a
piangere disperato. Ha così appreso a conoscere la
sofferenza e la compassione (per ogni essere
senziente, direbbe un buddhista). Ebbene il pianto
di Kang-do quando tenta di salvare colei che egli
crede essere sua madre mi ha richiamato alla mente
il pianto di quel bambino con la differenza che il
bimbo, saputo che cos'è la compassione, procede
nella sua esistenza mentre Kang-do esce schiacciato
dal dolore, e questa sua nuova acquisizione, questa
conoscenza diretta della compassione non potrà più
essere spesa nella sua vita, poiché proprio alla sua
stessa vita egli pone fine. E così, come in un
cerchio, questo ultimo film di Kim Ki-duk si lega al
primo, per continuità di temi, indagati daccapo e
diversamente ad ogni nuova storia. E con una
capacità pittorica nella costruzione delle
inquadrature, altissima e profonda. Siamo proprio
davanti ad uno dei più originali ed autentici autori
di cinema in circolazione in questi anni.
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