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Libri a fumetti

Joe Kubert: Opere di un maestro scomparso
Articolo di Andrea Cantucci

Cinema

In questo numero presentiamo:
Prometheus
di Mario Gardini
Ribelle - The brave
di Mario Gardini
Skyfall
di Mario Gardini
Vendetta e pietà
di Maria Antonietta Nardone

Fotografia

Un fotografo dell'istinto e di geometrie variabili: oltre il reale l'arte di Federico Pia
A cura di Alessandro Rizzo

Insert coin

In questo numero:
Cacciatori di tutto il mondo, unitevi
Borderlands 2
LittleBigPlanet PSVita
Booktrailer

Booktrailer

Booktrailer Online Awards

Arte contemporanea

Il doppio volto di Firenze
di Luca e Alessandro

Miti mutanti 18

Strisce di Andrea Cantucci

Un artista a Coverciano 4

Strisce di Luca Mori

In questo numero...

 


PROMETHEUS
di Ridley Scott
con Noomi Rapace, Michael Fassbender, Charlize Theron
2012 - USA

Le aspettative erano davvero alle stelle, e non solo perché si trattava di un film girato nello spazio: Ridley Scott, regista del primo "Alien", tornava a dirigere il prequel della più famosa saga di fanta-horror della storia del cinema.
Il mercato americano aveva risposto con ottimi incassi e molte critiche favorevoli lasciavano sperare in un prodotto che valesse l'attesa di quasi 15 anni (tanti infatti sono passati dall'ultimo capitolo "Alien 4. La clonazione").
E invece… la delusione più totale.
Al di là della realizzazione tecnica, degli effetti speciali e della scena in cui la dottoressa Shaw si autopratica un cesareo, tutto il resto del film è lento, lungo, noioso e privo di qualsiasi pathos.
Forse, se fosse stato un film a sé senza i suoi predecessori, gli avrei dato una tiepida sufficienza.
Ma così no. Così viene voglia di dare retta al robot David (Michael Fassbender) il quale afferma che "per poter ricominciare bisogna prima distruggere", obbligando Scott a bruciare questa pellicola (da lui prodotta) e tornare dietro al macchina da presa per regalarci un Alien 5 con la nostra amata, venerata, idolatrata e mai dimenticata Sigourney "Ripley" Weaver.

Nel 2093 una nave spaziale denominata Prometheus vaga nello spazio alla ricerca delle origini dell'uomo.
L'equipaggio è di varia natura: c'è chi lo fa per soldi, chi per fede, chi perché sta per morire e spera di guadagnarsi il dono della vita eterna.
Giunti su un pianeta artificiale, la spedizione si trova subito a dover combattere contro strane creature che iniziano a decimare l'equipaggio.
La dottoressa Shaw (Noomi Rapace) e suo marito Peter (Guy Pearce) sono in cerca degli Ingegneri, ovvero i precursori dell'umanità da cui sono convinti di aver ricevuto un invito dopo aver scoperto in una grotta scozzese un'antica mappa.
Strada facendo si scopre che gli Ingeneri, in realtà, avevano creato queste strane creature per distruggere l'umanità.
Sul Prometheus, nonostante la sterilità della donna, i due concepiscono uno strano essere a forma di calamaro dopo che a Peter viene fatta inghiottire una strana sostanza.
Dopo tempeste magnetiche, schianti di astronavi e strani vasi che sembrano anticipare le future uova stile Fabergè degli alien, si salverà solo la dottoressa la quale, insieme a quello che resta del robot David, partirà alla ricerca di nuove spiegazioni.
Il calamaro partorito dalla donna, alla fine del film, assalirà ed inseminerà l'ultimo degli Ingegneri, dal cui ventre nascerà il mitico Alien creato nel 1979 dal Premio Oscar Carlo Rambaldi.

Speriamo vivamente che non ci sia un sequel di questo prequel, come invece le premesse lascerebbero temere.
La regia di Scott è priva di verve e anche gli attori sono per lo più decorativi.
Brava Charlize Theron, che supervisione la missione stellare con l'aria algida e stronza che ormai Hollywood le ha appiccicato addosso da parecchi film.
Michael Fassbender, attore bello e ambiguo reso famoso da film come "Shame" e "X-Men - L'inizio", nel ruolo dell'androide è sufficientemente inquietante mentre la svedese Noomi Rapace è insopportabile nel ruolo di Elizabeth Shaw. Lasci lo spazio e torni a fare la tatuata Lisbeth Salander nella trilogia Millennium di Stieg Larrson.
Noi vogliamo indietro Sigourney. E pure il gatto Jones.

Mario Gardini

* * *

RIBELLE - THE BRAVE
di Mark Andrews e Branda Chapman
con Kelly McDonald, Julie Walters, Emma Thompson
2012 - USA


È un film molto più Disney che Pixar questo "Ribelle - The brave", anche se vanta la produzione del famosissimo marchio con la lampadina al posto della I.
Infatti la storia della principessa scozzese che si rifiuta di sposarsi per ragioni di Stato richiama moltissimo altre sue colleghe Disney come Belle, Jasmine e Pocahontas.

Merinda, principessa scozzese dalla bellissima folta chioma rossa, è un'arciera provetta che non accetta l'educazione troppo rigida e "old style" di sua madre, la regina Elinor (nell'originale doppiata da Emma Thompson).
Sua madre ha deciso che Merinda deve sposare il figlio di una delle tre tribù amiche per riunire il regno frazionato, in tempi antichi, da un antenato facinoroso e violento.
Durante la festa di fidanzamento, Merinda sfida i tre pretendenti al tiro con l'arco e, sotto mentite spoglie, partecipa alla gara anche lei, vincendo e rivendicando così il diritto a sposare se stessa.
Succede il pandemonio. La lite con sua madre tocca vette drammatiche e la ragazza, in fuga dal castello, insegue i fuochi fatui fino alla capanna di una strega.
Qui otterrà una pozione in grado di far cambiare sua madre.
Peccato che il cambiamento sia molto radicale, tanto da trasformare la povera regina in un orso.
Braccata dal marito, convinto che si tratti della bestia che anni prima gli strappò una gamba, Elinor può contare solo sulla figlia che, con determinazione e coraggio, riesce a rompere l'incantesimo, a liberare il regno da un pericolo di lunga data e far capire a tutti, a cominciare da sua madre, che nella vita ognuno deve essere libero di fare le proprie scelte in maniera autonoma.

Diciamo subito che questo "Ribelle - The brave" non è un capolavoro di quelli a cui ci ha abituati fin qui la Casa di John Lasseter.
Da un punto di vista grafico, è stupefacente.
Ormai le espressioni del viso sono perfette anche per i personaggi umani, cosa che fino a qualche film fa era assolutamente impensabile.
I paesaggi sono bellissimi e fanno venire voglia di andare in Scozia a perdersi in mezzo a prati verdi infiniti, cascate purissime e magnifiche foreste ricche di magici dolmen.
Anche la musica in stile Enya è azzeccata e molto coinvolgente.
È proprio la sceneggiatura che lascia un po' a desiderare.
La storia dell'orso è un po' troppo simile a quella di "Koda, fratello orso" ed anche la gara di tiro con l'arco ricorda molto quella di "Robin Hood".
Il successo in Patria è stato comunque importante (più di 230 milioni di dollari di incasso) e nel resto del mondo potrebbe seguire la stessa sorte.
Però rimane un vago senso di insoddisfazione, totalmente sconosciuto di fronte a film come "Mostri & Co" e "Toy story".

Decisamente più interessante ed originale è il corto proiettato prima del film, intitolato "La luna" e realizzato da un italiano, Enrico Casarosa.
Very proud of him.

Mario Gardini

* * *

Skyfall
di Sam Mendes
con Daniel Craig, Judi Dench, Javier Bardem
2012 - Regno Unito e USA

James Bond festeggia i suoi primi 50 anni e ritorna ad essere un vero 007.
Nel senso che, messi da parte strani marchingegni e trame piene di buchi, finalmente assistiamo ad un film del più famoso agente segreto del mondo al servizio di Sua Maestà degno di tal nome.
Non che, con questo, manchino spettacolari inseguimenti o scene mozzafiato, tutt'altro. Solo che il tutto è condito con una dose di umanità ed intelligenza ben superiore alle sceneggiature degli ultimi anni.
Daniel Craig è di sicuro il migliori Bond dopo l'originale Connery, e la sua presenza in scena, calibrata ed elegante, ci fa accettare con un sorriso anche i controsensi di una storia che ha più di una lacuna.
A cominciare da un volo dal tetto di un treno con tanto di pallottola in corpo e conseguente bagno nelle cascate con mezzo affogamento a cui il nostro eroe sopravvive.
Come, non ci è dato a sapere.
Ma che importa. Arriva Adele, la cantante british più "cool" del momento (che in realtà è la brutta fotocopia di Alison Moyet) con una canzone fatta apposta per piacere, partono i titoli di testa (sempre spettacolari) e voilà… siamo già tutti complici del gioco.

Bond è morto poi non è morto. In cambio c'è qualcuno che si è rubato il file con il nome di tutti gli agenti sotto copertura e sta iniziando a pubblicarlo su internet, mettendo in pericolo la vita degli agenti.
Il Quartier Generale salta per aria e non ci vuole molto per capire che il vero obiettivo è M (la sempre splendida Judi Dench).
Il colpevole si chiama Silva (Javier Bardem) ed è un ex agente segreto che dalla signora fu scaricato anni addietro e, dopo aver subito cinque anni di torture in Afghanistan, oggi reclama la sua giusta vendetta.
Raccontando allegorie su due topi sopravvissuti, Silva porta sia lui che Bond a combattere per quella M(adre) che il capo del MI6 rappresenta per entrambi, mentre la stessa M finisce sotto giudizio da parte del Ministro per aver fallito nel suo operato.
La resa dei conti finale si tiene a Skyfall, casa avita della famiglia Bond, in cui il nostro eroe assomiglia sempre di più a Bruce "Batman" Wayne che, al posto del fido Albert, ritrova un ex guardiacaccia che lo aiuterà (Albert Finney, altro grande mito dello schermo).
Finale edipico e strappalacrime che però dà inizio a un nuovo ciclo nella saga di 007, con l'arrivo del bel Ralph Fiennes.
Insomma, come avrebbe detto Troisi… ricomincio da 23 (tanti sono i film di James Bond fatti fin qui).

Il regista è quel Sam Mendes che, più di dieci anni fa, ci raccontò il declino della famiglia media americana in "American Beauty".
Di Craig ho già detto, anche se i due veri mattatori del film sono l'austera Dench e Bardem, che si tinge i capelli per impersonificare un cattivo che a tratti somiglia un po' troppo ad Hannibal Lecter.
Le due belle di turno passano abbastanza rapide ed inosservate sia nel letto di Bond che sullo schermo (anche se Bérénice Marlohe è uno spettacolo) mentre la palpatina di Bardem apre nuovi scenari nella vita da latin lover della spia inglese.
Frase da portare a casa: "Giovinezza non è garanzia di innovazione".

* * *

Vendetta e pietà

di Maria Antonietta Nardone

"Pietà"
di Kim Ki-duk
con Lee Jun-jin, Cho Min-soo

Film tanto bello quanto duro, durissimo. Come il tema trattato: l'usura, la forza malefica del denaro, certe forme di capitalismo super-aggressive che spazzano via tutto, persone e interi quartieri. E come lo stile adottato: violento, a tinte forti e nette. Eppure capace di creare immagini di grande, struggente bellezza e di far emergere momenti di poesia purissima.
In pochi giorni il regista sud coreano Kim Ki-duk ha girato un film potente, con momenti di profondità finissima e con un tocco unico; davvero originalissimo. Non si è avvalso di produzioni faraoniche per descrivere l'abiezione a cui può portare il denaro, il bisogno di denaro o l'avidità di denaro (già, il denaro, questa allucinazione collettiva dell'inizio del ventunesimo secolo e non solo). In un quartiere miserrimo di Seoul, tutto calcinacci e muri sventrati, ha il suo piccolo e sporco rifugio un giovane solitario, Kang-do. Ogni mattino, indossa il suo giubbotto, jeans e scarpe, tutti rigorosamente firmati, e va a riscuotere gli interessi decuplicati di prestiti fatti ad artigiani che lavorano in officine che sono bugigattoli pieni di ferro, tubi e cianfrusaglie, per conto di un boss del luogo, un insospettabile uomo d'affari in giacca e cravatta. Freddo e privo del più lontano sentimento di pietà e/o di compassione (alla buddhista dacché si è in un paese, la Corea del sud, che è a maggioranza buddhista), è inesorabile nel rompere gambe, infilare bracci in una morsa d'acciaio o mani in una pressa. L'assicurazione per quello che verrà rubricato come un incidente, salderà il debito dello "sfortunato" artigiano. Il giovane Kang-do procede in questa sua esistenza di macchina-recupa-soldi senza consapevolezza, senza pensiero, senza provare sentimenti per alcuno; di notte si masturba contro un cuscino, e in questo onanismo si esaurisce tutto il suo calore e la sua assenza di relazioni affettive.
In questa vita anaffettiva e monotona irrompe una donna matura, Mi-sun, che lo segue fino a casa, fin dentro casa. Il giovane, all'inizio, la tratta malissimo, com'è sua consuetudine in ogni relazione con il prossimo. La tenacia dolcissima e paziente della donna, che gli rivela di essere la madre che lo ha abbandonato appena neonato, perché all'epoca giovanissima, vinceranno a poco a poco la dura scorza di violento esattore di prestiti, non prima di averla sottoposta a più "prove", tra cui uno stupro da lui stesso perpetrato, e psicologicamente tremendissimo (una scena che turba più delle ossa spezzate, di cadute da palazzi, di accoltellamenti, di schiaffoni sonori ed altre violenze di cui il regista non risparmia lo spettatore dall'inizio alla fine del film senza tregua), come ulteriore prova dell'autenticità della sua maternità.
La tenerezza e l'accudimento di questa donna apriranno un varco ai sentimenti di Kang-do, il quale, così, però, avrà molti problemi a svolgere il suo "lavoro" come prima. Perduta la sua impermeabilità, comincia a "sentire" la sofferenza di quegli uomini a cui va ad estorcere denaro; comincia a "comprendere" le motivazioni che li spingono a chiedere soldi ad un usuraio e questo gli impedirà di rompere gambe e braccia come faceva prima con meccanica efficacia. Anzi, si insinua in lui una buia paura; la paura della vendetta, la paura che qualcuno dei mutilati possa vendicarsi facendo del male a sua madre lo porta a sua volta a provare quella sofferenza in passato inferta ad altri. Il momento in cui, quando crede che qualcuno stia minacciando di buttare la madre dall'alto di un edificio, offre la sua stessa vita al posto di quella della madre, ebbene questo è il momento in cui si è davanti ad un cambiamento indubbio, davanti ad un'anima totalmente cambiata e rinnovata. E in quello stesso momento la madre, Mi-sun (che in realtà non è sua madre, ma la madre di un giovane che, costretto sulla sedia a rotelle da uno dei suoi tanti pestaggi, si suicidò e lei, per vendetta, si è spacciata per sua madre per poi abbandonarlo, sia pure con la morte, per fargli sentire prima il calore dell'amore materno e poi il dolore per la perdita dell'amore materno) ebbene in quello stesso momento, proprio mentre sta per concludere la sua vendetta, ha un moto di pietà per quel giovane, che non è suo figlio, ma che sta offrendo la propria vita in cambio della sua; e proprio davanti alla sofferenza e al cambiamento di Kang-do, la donna ha un'esitazione prima di portare comunque a termine il suo piano. Si getta dall'alto dell'edificio e muore. E mortale sarà il dolore di questa nuova anima, che non riesce a fronteggiare questo abbandono. Incapace di riprendere la sua vita di prima, Kang-do si lega di notte al furgoncino di una donna, di cui aveva mutilato il compagno, e si lascia trascinare, a sua insaputa, sull'asfalto della strada all'alba di un nuovo mattino mentre si alzano le note e le voci di un miserere nobis con tanto di kyrie eleison. Che senza quella spietatezza, ormai, non si possa più vivere? Questo sembra suggerire o domandare questa storia che è anche una chiara rappresentazione ed un'inequivocabile critica di un modello economico feroce che ha il potere di azzerare ogni sentimento e ogni pensiero squisitamente umani.
Vendetta, amore e assenza d'amore, denaro, pietà e assenza di pietà; il tutto narrato con inquadrature splendide, davvero memorabili. Anche se le scene, mi ripeto, sono durissime (diamine se si soffre o si abbassa gli occhi durante tutta la visione!). Mentre Seoul, vista da questo quartiere cadente, fatto di vicoli scuri e di immondizia, botteghe dietro le cui saracinesche si aprono arzigogolati macchinari e ferraglia varia e attraverso cui si muovono individui, vecchi e giovani, che proprio non ti immagini possano vivere o muoversi in quei tuguri (questo per chi non conosce l'Asia), è il terzo personaggio del film; i nuovi, altissimi e lucenti grattacieli che svettano sul cielo della città si mangeranno anche questo vecchio quartiere di edifici scrostati e sventrati, ma nel quale per anni e anni si è svolta la vita di migliaia di persone che hanno costruito la loro vita e la loro storia. È come se il regista salutasse e ringraziasse questo quartiere prima che la voracità dei palazzinari asiatici lo annienti e lo faccia scomparire dalle mappe della città.
Bravissimi i due attori: Lee Jun-jin, che interpreta il giovane Kang-do, e Cho Min-soo, che interpreta una figura di madre indimenticabile nella sua determinata volontà di vendetta e involontaria educatrice ai sentimenti e alla compassione. Perché il provare compassione (soffrire con) passa anche per un'educazione alla compassione e si ritrova fin dal primo film di questo sorprendente regista, il bellissimo e folgorante "Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera" dove c'è quell'episodio illuminante del pesce, della rana, del serpente e del bambino. L'educatore, in quel caso, era un vecchio monaco buddhista.
Un bambino studia per diventare monaco in una casa/tempietto posta in mezzo ad un lago ed è seguito da un vecchio monaco, il suo maestro. Nella scoperta del mondo il bambino si trova a sperimentare anche piccole forme di sadismo, naturalmente inconsapevole. Per gioco e per piacere lega un sassolino prima ad un pesce poi ad una rana infine da un serpente ridendo dell'impaccio che i tre animali provano nel nuotare o nel muoversi. Il vecchio maestro lo vede. Di notte, lega al bambino una pesante pietra. Al mattino, dopo un breve dialogo chiarificatore, il maestro così lo ammonisce:"Se hai sbagliato, devi porvi rimedio" e poi "se anche uno solo dei tre animali è morto, porterai questa pietra sul cuore per tutta la vita". Il bambino sperimenta così lo sforzo e la fatica di muoversi con quel pesante fardello sulla schiena. Quando va a togliere il sasso al pesce, lo trova morto. Seppellisce il pesce. La rana, invece, è ancora viva. La libera del sasso con cui l'aveva legata. Il serpente giace in una pozza di sangue, senza vita. Il bambino comincia a piangere, a piangere disperato. Ha così appreso a conoscere la sofferenza e la compassione (per ogni essere senziente, direbbe un buddhista). Ebbene il pianto di Kang-do quando tenta di salvare colei che egli crede essere sua madre mi ha richiamato alla mente il pianto di quel bambino con la differenza che il bimbo, saputo che cos'è la compassione, procede nella sua esistenza mentre Kang-do esce schiacciato dal dolore, e questa sua nuova acquisizione, questa conoscenza diretta della compassione non potrà più essere spesa nella sua vita, poiché proprio alla sua stessa vita egli pone fine. E così, come in un cerchio, questo ultimo film di Kim Ki-duk si lega al primo, per continuità di temi, indagati daccapo e diversamente ad ogni nuova storia. E con una capacità pittorica nella costruzione delle inquadrature, altissima e profonda. Siamo proprio davanti ad uno dei più originali ed autentici autori di cinema in circolazione in questi anni.

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