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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici inediti,
in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
poesie di Amanda Nebiolo,
Alejandro César Alvarez,
Paolo Del Rosso
Aforismi
Interviste
Paolo Adamo è autore del
romanzo "giovanile": Milano Baby'lone
intervista a cura di
Alessandro Rizzo
Recensioni
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Top nonik
(seconda parte)
Partimmo il 20 gennaio, alle otto di mattina,
dopo una colazione abbondante.
Era un giorno molto buio, come quando si sta per scatenare un
temporale. L'aria era elettrica e afosa. Eravamo una piccola
carovana di una dozzina di macchine ed altrettante moto e
motorini. Un piccolo esodo. Sui portabagagli delle auto erano
state caricate quasi tutte le biciclette disponibili; solo un
paio erano rimaste in paese. La mia mountan bike mandava strani
riflessi, legata sopra il tetto della Golf.
Io e Paolo eravano in macchina con lo zio Cesare. La nonna era
rimasta a casa. Non sapevo allora che non l'avrei più rivista.
Ricordo bene quel giorno. La mia vita cambiò nel giro di poche
ore. Non potevamo neanche immaginare cosa avremo trovato. No,
non potevamo. Siamo cambiati, e cambiati molto. Forse neanche la
nostra lingua è più la stessa - se ci penso adesso - forse è
cambiata e non ce ne siamo neanche accorti.
La strada serpentò tranquilla per i primi dieci chilometri.
Stradammo sempre meno sicuri, l'occhio fisso chi al
contachilometri chi al paesaggio monotono. Boschi e cambi e
lontane montagne. Il sole ancora non voleva comparire, ma il
cielo si era un po' schiarito. Chissà perché temevamo che
nebbiasse. Non temevamo di perderci, no. La strada serpentava
unica e in qualche modo tranquillizzante. Temevamo che a
perdersi fosse il paese che avevamo lasciato alle nostre spalle.
Non eravamo affatto sicuri di ritrovarlo se avessimo invertito
la marcia. Più ci allontanavamo e più questa sensazione si
faceva forte. Ma andavamo avanti.
Alle nove avevamo percorso una quarantina di chilometri. Fino a
quel momento, non avevamo incrociato nessuna auto. Avevamo fatto
solo una sosta per bisogni fisiologici, una sosta di pochi
minuti. Poi nebbiò. All'improvviso.
La nebbia in circostanze normali non mi dispiace, anzi. Ricordo
di belle serate di nebbia urbana, prima di quel Natale 1991, e
ancora più suggestive nebbie boschive. La nebbia rende
fantastico un mondo altrimenti banale. Almeno per me che non la
vedevo molto spesso. Ma quel giorno non ero per nulla
affascinato dalla nebbia.
Vedevo che anche lo zio Cesare e mio cugino condividevano la mia
inquietudine. I fari non riuscivano a penetrare il muro bianco
che si alzava davanti a noi. Non riuscivamo a vedere neppure le
altre macchine e motorini, che pure dovevano distare pochi
metri. Era come se la strada si andasse costruendo poche decine
di centimetri davanti a noi, al nostro passaggio. Ci dovemmo
fermare. Mio zio tirò giù il finestrino e si sporse nel nulla.
- Antonio! - chiamò.
- Cesare! - echeggiò la voce del cognato, in qualche modo
deformata
- Gosto!
- Rita!
- Siamo qua, voi dove siete?!
- Siamo qua!
- Qua dove??
- Non si vede un…
- Cecilia! Dannazione, dove siamo finiti?
- E chi lo sa…
Altre voci, tutte spaventate o comunque nervose. Qualche
litigio, altre voci più o meno lontane, impossibile dire quanto
o da quale direzione. Non sapevamo cosa fare, nessuno aveva
un'idea valida. Non restava che attendere.
Tirai giù il finestrino anche dalla mia parte. Tirava un vento
gelido, un vento che s'infilava tra le foglie degli alberi: un
concerto da brividi. Tirai su dopo pochi attimi.
- Che facciamo? - chiesi dopo non so quanto tempo.
Mio zio continuava a guardare la nebbia davanti a se, non
sapendo cosa rispondermi.
Poi snebbiò, all'improvviso come aveva nebbiato.
E ripartimmo.
L'autoradio mandava solo scariche elettriche, così ci avevo
infilato dentro una cassetta di Mike Oldfield e mi ero lasciato
andare alla sinfonie rock che bene s'adattava a quel paesaggio
misterioso. Paolo batteva il tempo con la mano sulla gamba,
nervosamente. Il bosco era oscuro e pauroso ma in qualche modo
suggestivo. Nessuno parlava.
Finito il lato A della cassetta la tolsi per girarla.
Automaticamente partì la radio. E le parole.
All'inizio pensammo ad una sorta di miraggio uditivo. Erano
settimane che non sentivamo una voce diversa dalle nostre. Radio
e televisioni erano diventate assolutamente inutili, buoni solo
per appoggiarci le tazzine del caffè e la nostra sanità mentale.
Invece quelle erano parole. All'inizio c'erano parole
misteriose, che non capivamo. C'era una voce scura e cavernosa
che ci dava i brividi. Qualcosa di malefico, di innaturale, come
innaturale e malefica mi era apparsa la nebbia di poco prima. Fu
quella forse l'unica illusione, perché durò pochi istanti prima
di trasformarsi nella banale voce di uno speaker che cronicava
le condizioni del traffico sui valichi, prima di passare alle
condizioni meteo nelle zone montuose dell'Appennino
Tosco-Emiliano.
Non avevamo finito di stupirci di quel prodigio che subito se ne
presentò uno ancora più grande.
Davanti a noi, dietro una serie di tornanti, c'era un centro
abitato.
Tante cose misteriose erano avvenute quel giorno, e nelle
settimane precendenti, ma nulla di paragonabile a ciò che ci
attendeva qualche chilometro più avanti.
Via via che ci avvicinavamo avevamo una strana sensazione di
familiarità, come se stessimo uscendo da una dimensione
fantastica per rientrare in quella reale, a noi ben nota, che
avevamo interrotto ventisei giorni prima. Cominciavamo a
distinguere dettagli di quella realtà, riconoscere la posizione
degli alberi, la serie di curve, ma più ancora qualcosa che
l'occhio non coglieva consciamente e che potevamo solo chiamare
"aria di casa". Pochi minuti dopo entrammo a Badia Prataglia, o
almeno in un paese che ne aveva tutta l'apparenza.
Vedendo quel lungo corteo di macchine e moto che paesava, i
badiani dovettero pensare ad un matrimonio o qualcosa del
genere. Si sarebbero sorpresi nello scoprire che non era così,
ma mai quanto noi nel trovare - dopo due ore di viaggio con una
media di quaranta orari - un luogo che distava poco più di 6
chilometri da Corezzo.
I nostri sentimenti si dividevano tra una gioia sorpresa ed una
confusa diffidenza. Semplicemente non ce l'aspettavamo. Nessuno
sapeva bene neppure cosa fare tranne parcheggiare nel grande
spiazzo della piazza centrale, dove il sabato mattina c'è il
mercato, e riflettere.
Quando scesi dalla macchina dovetti farmi ombra con la mano.
Dopo la nebbia e l'oscurità era spuntato un sole accecante in
mezzo ad un cielo limpido, senza un velo di foschia. L'aria era
frizzante.
- Ho proprio voglia di un gelato! - esclamò Paolo.
L'assurdità - e la banalità - di quella frase in quella
circostanza ci fece ridere a crepapelle. Proprio una risata
liberatoria. Persino lo zio Cesare, di solito serissimo (non
l'avevo mai visto ridere, e persino il suo sorriso aveva
qualcosa di legnoso), si piegò in due dalle risate. Mio cugino
ebbe il suo gelato nella gelateria della piazza, a pochi passi
dal parcheggio, e lo ebbi anch'io nonostante non fosse una
giornata propriamente da gelato. Eravamo in qualche modo felici.
- Non ci crederebbero - concluse mio zio, che in qualche modo
aveva assunto la guida di quella strana spedizione. La maggior
parte dei corezzini esploratori d'accordò, ma non mancò chi
insisteva per rivolgersi alle autorità.
- Ma quali autorità poi? - proseguì Cecilia, cugina di secondo
grado dello zio Cesare - i carabinieri? I forestali? … il
sindaco??
- E che facciamo allora? - ribatterono gli altri.
- Non so.
Scoprimmo non molto dopo che, per qualche strano motivo,
l'assenza di Corezzo e dei suoi abitanti non era stata notata
dai badiani. Pareva che per loro fosse tutto normale, come lo
era per noi un mese prima. D'altra parte il display elettronico
sopra alla gelateria ci diceva che era il 20 gennaio e quindi
trovammo molto insolito che badiani e corezzini si fossero
incontrati fino al giorno prima. La sopresa insomma era
reciproca.
Qualcuno rimase a Badia, non si sa bene a fare cosa. Altri, già
molto in ritardo con il rientro dalle ferie, proseguirono per le
rispettive città. Io seguii naturalmente mio cugino e lo zio
Cesare nel viaggio di ritorno a Corezzo. Non c'era che da fare a
ritroso la via dell'andata anche se temevamo - e a ragione - che
per quanto logica la cosa, non sarebbe stato affatto così
semplice.
Facemmo benzina all'unico benzinaio del paese. Tutto appariva
normale, così normale che più di una volta dubitai di aver fatto
un lungo e strano sogno.
Il cartello stradale che indicava l'ingresso al paese era
concreto, reale. Non sapevamo più cosa pensare. Quando Badia
Prataglia fosse sparita alla prima curva avemmo la certezza che
non l'avremo più rivista. In realtà quando mi voltai appena
fuori dal paese, già non c'era più. Al suo posto si estendeva
misterioso e beffardo il solito paesaggio collinare e montano.
(continua...)
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